Quello che Jeff Bezos ha appena fatto al Washington Post è un colpo di scena tanto incredibile quanto deprimente. Un tempo, leggere il WP era parte integrante del fascino di vivere a Washington D.C., un’esperienza che oggi viene brutalmente svuotata del suo significato. È un tradimento in piena regola, un calcio alla storia di un giornale che più di ogni altro ha dimostrato cosa significhi fare giornalismo vero: sfidare il potere, denunciare gli abusi, costringere chi comanda a rendere conto delle proprie azioni. Cosa staranno pensando Woodward e Bernstein? Forse che il sogno di un giornalismo indipendente è ormai ridotto a cenere.

Chiunque creda che questi cambiamenti riguarderanno solo la pagina editoriale del giornale si illude. Sarebbe come pensare che l’incendio resti confinato a una sola stanza mentre l’intero edificio brucia. Il Washington Post è destinato a diventare l’ennesimo megafono di un potere che, invece di essere sfidato, sarà coccolato, assecondato, omaggiato. Da oggi in poi, il giornale che si vantava di far tremare i potenti si limiterà a scrivere ciò che i potenti vogliono leggere.

E questa vicenda dimostra molte cose, tutte sconfortanti. La prima è che neanche i miliardi comprano la libertà, figuriamoci la dignità. La seconda è che la democrazia e il pluralismo non muoiono nel buio, come il WP ci aveva fatto credere con il suo slogan, ma alla luce del sole, davanti a tutti, senza che nessuno muova un dito. E infine, e forse è la cosa più amara di tutte, dimostra che l’idea di poter contare sull’impegno delle grandi aziende per difendere la democrazia è una favola che ci raccontiamo per dormire meglio la notte. Le aziende hanno interessi, e questi interessi vincono sempre. Su tutto.

Se dobbiamo costruire alleanze sociali per difendere la democrazia, allora è il caso di smetterla con le illusioni. Oggi è una giornata nera per la libertà di stampa, per il pluralismo, per la democrazia negli Stati Uniti e nel resto del mondo.

Il Washington Post è morto. Riposi in pace.