La narrativa trionfale che ha accompagnato la rielezione di Donald Trump si sta sbriciolando sotto il peso delle aspettative mancate. L’ultimo sondaggio economico nazionale CNBC All-America fotografa un Paese più cupo, deluso e (cosa ancora più letale in politica) impaziente. Il consenso economico nei confronti del presidente ha toccato i livelli più bassi del suo secondo mandato, segnando un’inversione di rotta drammatica rispetto all’impennata di ottimismo che aveva accompagnato la sua riconferma. Con un approvazione economica al 43% e un netto 55% di disapprovazione, Trump entra ufficialmente nella zona rossa della fiducia pubblica, per la prima volta anche sul tema economico, da sempre il suo cavallo di battaglia.
Il dato più preoccupante per la Casa Bianca non è tanto la resistenza della base repubblicana, che regge, quanto la frattura profonda con gli indipendenti e l’ostilità feroce dei democratici. Tra questi ultimi, la disapprovazione netta sulle politiche economiche di Trump ha raggiunto il -90, un abisso politico mai visto nemmeno durante il primo mandato. E anche tra i lavoratori blue collar, una delle colonne portanti del trionfo trumpiano del 2024, il supporto mostra crepe evidenti: sì, ancora positivi nel complesso, ma con una crescita di 14 punti nei tassi di disapprovazione rispetto alla media del primo mandato. Il tempo della gratitudine è finito, ora si pretende il dividendo.
Nel cuore della politica commerciale internazionale, Donald Trump ha rilasciato dichiarazioni che hanno suscitato l’attenzione di analisti e diplomatici. Durante un incontro con la Premier italiana Giorgia Meloni alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti ha affermato che ci sarebbe stato un “accordo commerciale al 100%” con l’Unione Europea. Questa dichiarazione, inaspettata rispetto alla retorica che Trump ha usato in passato contro l’Europa, ha sollevato interrogativi sulla sua strategia e sulle reali intenzioni dietro la minaccia di tariffe su acciaio, alluminio e auto. Un’affermazione che sembra essere il preludio a negoziati che potrebbero segnare una svolta nelle relazioni transatlantiche.
L’incontro tra Trump e Meloni non è solo un semplice scambio di battute politiche. Meloni, che ha costruito un rapporto di fiducia con il presidente americano, si trova nella difficile posizione di mediare tra gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Unione Europea. La sua presenza a Washington aveva l’obiettivo di evitare l’escalation della guerra commerciale con l’Europa, in particolare cercando di evitare l’aumento delle tariffe imposte da Trump. Nonostante la retorica aggressiva, Trump ha parlato con un certo ottimismo: “Ci sarà un accordo commerciale, al 100%”, ha detto, indicando una volontà di raggiungere un’intesa con l’Europa, ma a condizioni che siano favorevoli agli Stati Uniti.
Donald Trump, nell’ombra e senza fanfare, starebbe da mesi vagliando l’idea di far fuori Jerome Powell, l’attuale presidente della Federal Reserve. Nessuna dichiarazione ufficiale, solo il classico gioco di sussurri e voci filtrate da ambienti “vicini ai fatti” la liturgia consolidata del potere quando vuole testare la temperatura dell’acqua senza sporcarsi le mani. Ma la temperatura, stavolta, rischia di bollire tutto.
L’ex presidente, che già in passato ha più volte criticato Powell per la sua gestione dei tassi d’interesse, ora sembra pronto ad affondare il colpo qualora tornasse alla Casa Bianca nel 2025. La sua antipatia nei confronti del numero uno della Fed non è una novità. Trump voleva tassi a zero, o meglio negativi, in pieno stile giapponese-decadente. Powell, invece, ha resistito – almeno quanto ha potuto –alla tentazione di trasformare la politica monetaria americana in un casino di Las Vegas. E questo, a Trump, non è mai andato giù.
Se c’è una costante nella geopolitica economica degli Stati Uniti targati Trump, è questa: ogni volta che si alza una barriera doganale per punire la Cina, qualcuno in California piange. E ora a piangere, con le tasche alleggerite di almeno un miliardo di dollari l’anno, sono proprio i colossi dell’industria dei semiconduttori americana. Applied Materials, Lam Research, KLA, e i player minori come Onto Innovation stanno facendo i conti non con i margini, ma con l’ascia di un protezionismo miope che rischia di segare il ramo su cui l’America tecnologica è seduta.
Secondo quanto riportato da Reuters, le tre principali aziende statunitensi produttrici di apparecchiature per semiconduttori stanno ciascuna fronteggiando perdite stimate attorno ai 350 milioni di dollari l’anno. Non a causa di un crollo della domanda, ma per le tariffe doganali decise dal solito zelo patriottico di Washington, in versione campagna elettorale. Onto Innovation, meno nota ma comunque presente nella supply chain globale, rischia perdite nell’ordine delle decine di milioni. Bruscolini, certo, ma solo per chi non lavora nell’azienda.
A Washington si è celebrata l’ennesima seduta teatrale mascherata da audizione congressuale, dove il sipario si è alzato su un paradosso tutto americano: per dominare il futuro dell’intelligenza artificiale, bisogna consumare il passato dell’energia. Una corsa al primato tecnologico che brucia elettricità come se fosse carbone dell’Ottocento, mentre la questione climatica viene elegantemente ignorata come un cameriere troppo zelante a un gala di miliardari.
Eric Schmidt, ex CEO di Google e oggi nuovo profeta dell’IA sotto le vesti del suo think tank “Special Competitive Studies Project”, ha scodellato la nuova verità: “Abbiamo bisogno di energia in tutte le forme, rinnovabili o meno, subito e ovunque”. Una chiamata alle armi energetica che sa tanto di manifesto industriale più che di politica nazionale.
Durante l’audizione della Commissione Energia e Commercio della Camera, la parola d’ordine è stata una sola: “dominanza”. Dominanza sull’energia. Dominanza sull’IA. Dominanza sulla Cina. E se per raggiungerla bisogna mettere in pausa il pianeta, pazienza. Quattro ore di interventi bipartisan dove repubblicani e democratici si sono annusati e ignorati a turno, uniti da un’ansia esistenziale: perdere la corsa contro Pechino.
Venerdì, in un audace tentativo di dimostrare che il concetto di “coerenza” è ormai obsoleto, Meta ha annunciato l’ingresso nel suo board di due personaggi dal curriculum perfettamente in linea con la sua missione di “connettere le persone”: Dina Powell McCormick, ex consigliera di Donald Trump e bancaria di alto livello, e Patrick Collison, CEO di Stripe, perché, si sa, quando pensi a “etica e responsabilità sociale”, Stripe è la prima cosa che ti viene in mente.
Mark Zuckerberg, con la solita faccia da poker, ha dichiarato: “Patrick e Dina portano un’esperienza unica nel supportare aziende e imprenditori” – sottintendendo: “Soprattutto quelli che pagano bene o hanno amici potenti”. McCormick, che oltre ad aver servito nell’amministrazione Trump ora gestisce i servizi clienti globali di BDT & MSD Partners, porterà sicuramente quella delicatezza diplomatica che mancava a Meta dopo le varie accuse di manipolazione politica.
(Perché anche i tiranni hanno bisogno del loro iPhone)
Che tenero gesto da parte del nostro amato leader supremo, Donald “Tariff Man” Trump, che ha deciso di graziare smartphone e laptop dalla sua personale crociata economica contro la Cina. Venerdì sera, mentre il mondo si chiedeva se i dazi del 145% fossero un errore di battitura o una follia calcolata, l’amministrazione ha annunciato con magnanimità: “Nah, su questi no, grazie, li usiamo troppo.”
Tra i fortunati esentati ci sono iPad, smartwatch e TV a schermo piatto – perché, diciamocelo, anche un protezionista ha diritto al suo binge-watching su Netflix. Apple, HP, Dell e compagnia bella possono tirare un sospiro di sollievo, mentre i consumatori potranno continuare a comprare l’ultimo MacBook senza dover vendere un rene. Peccato per i marchi cinesi come TCL e Lenovo, che dovranno ancora capire se la loro merce è abbastanza americana per sfuggire alla furia tariffaria.
Il 14 aprile 2025, sette senatori repubblicani hanno inviato una lettera al Segretario al Commercio Howard Lutnick, chiedendo l’abrogazione della “AI Diffusion Rule“, una normativa introdotta dall’amministrazione Biden che limita l’esportazione globale di chip per l’intelligenza artificiale.
Secondo i senatori, questa regola potrebbe danneggiare la leadership degli Stati Uniti nel settore dell’IA, creando incertezza per le aziende americane e ostacolando gli investimenti e le partnership tecnologiche globali. La normativa classifica i paesi in tre livelli, con solo 18 nazioni che godono di un accesso facilitato alla tecnologia americana, mentre la maggior parte, inclusi alleati come Israele, affronta restrizioni significative.
I senatori avvertono che tali limitazioni potrebbero spingere i paesi del secondo livello a rivolgersi a soluzioni cinesi, indebolendo l’influenza tecnologica degli Stati Uniti. Microsoft ha espresso preoccupazioni simili, affermando che la regola potrebbe dare alla Cina un vantaggio strategico nella diffusione della propria tecnologia IA.
Il Segretario Lutnick ha dichiarato che è necessario impedire alla Cina di utilizzare la tecnologia americana per costruire i propri sistemi IA. La questione evidenzia le divisioni interne al Partito Repubblicano su come gestire le esportazioni tecnologiche in un contesto di crescente competizione con la Cina.
Benvenuti nel nuovo episodio della soap opera Tariff Wars: Made in America, dove ogni giorno è una roulette russa per le supply chain globali. Howard Lutnick, Segretario al Commercio USA e fedele araldo del trumpismo 2.0, ha rivelato in un’intervista alla ABC che l’amministrazione ha deciso di separare i destini tariffari dei prodotti tech – smartphone, computer, semiconduttori e altra elettronica di prima fascia – da quelli soggetti ai dazi “reciproci” annunciati ad aprile. Ora, questi prodotti rientreranno sotto una nuova categoria: le “tariffe settoriali”.
Quando l’ex presidente Donald Trump firma un ordine esecutivo, non lo fa mai a cuor leggero. Mercoledì ha messo nero su bianco un attacco frontale a Christopher Krebs, ex direttore dell’Agenzia per la sicurezza informatica e delle infrastrutture (CISA), oggi dirigente di SentinelOne, società privata di cybersecurity. Sì, proprio lui, lo stesso che dopo le elezioni del 2020 ebbe l’ardire di smentire pubblicamente le teorie trumpiane sul presunto “furto” elettorale. Il prezzo? Ora si ritrova al centro di un’indagine ordinata dallo stesso uomo che l’aveva già licenziato con una mossa spettacolare e mediatica.
Trump, in questo nuovo ordine esecutivo, ha revocato il nulla osta di sicurezza a Krebs, etichettandolo di fatto come una minaccia all’apparato statale. Ma attenzione: non si tratta di un’azione isolata. Il tycoon è nel pieno di una campagna di rivincita sistematica contro individui, studi legali e università che a suo dire lo avrebbero danneggiato o screditato. Questo comportamento paranoico, o forse solo estremamente strategico, ci racconta più del modus operandi trumpiano che dell’effettiva pericolosità di Krebs.
La scelta di prendere di mira un esperto riconosciuto a livello internazionale, che aveva semplicemente affermato che le elezioni del 2020 furono “le più sicure nella storia americana”, non è solo un atto vendicativo, ma un segnale politico ben preciso. Siamo nel pieno del 2024 e Trump ha bisogno di polarizzare l’attenzione, consolidare la base e riscrivere la narrativa in vista delle prossime elezioni. Quale modo migliore se non riesumare i fantasmi del 2020 e attaccare chi, con freddezza e competenza tecnica, ha osato contraddirlo?
Non è una guerra commerciale, è una partita a Risiko giocata da boomer vestiti da statisti, con le aziende tech americane al centro del bersaglio. Apple si è già beccata il primo colpo, ma ora anche Meta e Google rischiano di vedere i loro margini evaporare tra i fumi di ritorsioni e nuove fantasiose imposte pensate a Bruxelles, con la stessa lucidità con cui si sceglie il karaoke di fine anno in un ente pubblico.
Ursula von der Leyen, che evidentemente ha deciso di iniziare la campagna elettorale con l’eleganza di un colpo di mazza sul tavolo delle relazioni transatlantiche, ha proposto una tassa sui ricavi pubblicitari delle aziende statunitensi. Non sui profitti, attenzione, ma sui ricavi. Il che, per chi mastica un po’ di business, è come tassare l’aria condizionata di un ristorante e non il conto. È una misura punitiva, non una riforma. È una provocazione fiscale mascherata da giustizia economica, e come ogni provocazione, rischia di ottenere l’effetto opposto.
Benvenuti nell’era del trilione di dollari. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca come un fantasma che non vuole saperne di restare nel passato, ha promesso – con l’immancabile petto gonfio da comandante in capo – un budget per la difesa da 1.000 miliardi di dollari. Una cifra colossale, mai vista prima, che rappresenta un incremento vertiginoso rispetto agli 892 miliardi appena approvati per il 2024. E mentre a Washington tagliano a colpi d’accetta tutto ciò che non sa di guerra, Trump e il nuovo Segretario alla Difesa Pete Hegseth piazzano il pentolone bollente della deterrenza sul fornello dell’Indo-Pacifico. Il messaggio è chiaro, urlato con il solito megafono mediatico: la Cina è il nemico designato, e bisogna spendere per stare al passo.
Donald Trump, il maestro del colpo di teatro e delle trattative condite da bistecche ben cotte a Mar-a-Lago, ha appena riscritto il copione della geopolitica tecnologica globale. Secondo un’esclusiva riportata da NPR, l’ex Presidente e probabile futuro candidato ha deciso di sospendere le nuove restrizioni sui chip AI venduti da Nvidia alla Cina, dopo un tête-à-tête serale con l’AD Jensen Huang, noto più per il suo giubbotto di pelle che per l’amore verso la diplomazia.
La vicenda ha i tratti di un western high-tech, dove le sanzioni USA, ideate per bloccare il progresso dell’IA cinese, vengono messe in pausa non da un consiglio di sicurezza o da un’analisi strategica del Pentagono, ma da una conversazione informale con un CEO. Huang avrebbe promesso a Trump “significativi investimenti” in data center di nuova generazione negli Stati Uniti, ovviamente a condizione di mantenere aperto l’accesso al lucroso mercato cinese. D’altronde, Huang non è nuovo ai giochi di equilibrio geopolitici: Nvidia vende chip avanzatissimi che fanno gola a entrambi i lati del Pacifico.
Nel bel mezzo di un tracollo globale dei mercati, Donald Trump – con la consueta teatralità da venditore di padelle –ha annunciato un aumento vertiginoso delle tariffe sulle importazioni dalla Cina, portandole al 125%. Un colpo secco e clamoroso, mentre concedeva una “pausa” di 90 giorni ai dazi punitivi diretti alla maggior parte delle altre nazioni. Il messaggio è chiaro: il bersaglio ora è unico, si chiama Pechino. Tutti gli altri, per ora, respirano.
A sentirlo parlare, sembra che 75 paesi gli abbiano implorato di fare un accordo. E come al solito, il presidente americano si mette in posa da macho solitario con l’istinto infallibile: “China wants to make a deal… but they don’t quite know how.” Una frase che suona più da psicoanalisi per popoli fieri che da geopolitica. Ma il sottotesto è semplice: Xi Jinping, sei nel mirino, fatti vivo.
La retorica, degna di una campagna elettorale permanente, si traduce in una nuova escalation: dazi cumulativi del 125% contro Pechino, mentre la Cina risponde immediatamente con un +50% su tutte le importazioni americane. Non esattamente il clima ideale per una distensione commerciale, ma in Borsa, si sa, basta poco per riaccendere l’euforia. L’S&P 500 rimbalza fino all’8% dopo quattro sedute da incubo. L’isteria algoritmica vince ancora.
Dietro le quinte, tuttavia, regna l’ambiguità. La pausa concessa agli “altri” resta avvolta nella nebbia. Perché anche l’Unione Europea – che nel frattempo ha imposto ritorsioni – viene inclusa nella moratoria? Mistero. Nessuna risposta chiara, solo l’ennesimo “go with the gut” di Trump. Un approccio che definire artigianale è un eufemismo: “Non puoi fare i conti con la matita, è questione d’istinto.” Una filosofia gestionale da poker texano con le economie globali come posta sul tavolo.
Intanto, i suoi fedelissimi cercano di riscrivere la narrativa: le tariffe non sono una reazione alla caduta dei mercati, ma una strategia pianificata. “Trump ha provocato la Cina a scoprirsi,” dice il Tesoro. Che in pratica è come dire: abbiamo fatto tiltare Pechino e ora il mondo sa chi è il cattivo. Un po’ troppo comodo, forse.
Mentre si aprono nuovi tavoli di trattativa – con Vietnam e Giappone pronti a mandare “deal teams” –la Casa Bianca manda un messaggio al mondo: chi non ha risposto con ritorsioni sarà trattato con clemenza. Ma resta la domanda su quanto durerà la luna di miele. Perché dietro l’apparente trionfalismo si intravede il solito schema trumpiano: creare il caos, attendere il panico, poi offrire la via d’uscita.
Daniel Russel, ex Consiglio per la Sicurezza Nazionale con Obama, fotografa il paradosso: “Il bersaglio è solo la Cina, ma i continui zigzag creano un’incertezza tossica per aziende e governi.” Ecco il problema: l’unilateralismo tattico senza una visione strategica di lungo termine. Pechino, secondo Russel, non cederà. Aspetterà che Trump si spinga troppo oltre, poi agirà. Perché a concedere si rischia di perdere, e Xi non è tipo da perdere la faccia.
La sensazione? Che questa sia solo la prima stagione di una lunga serie. Una fiction politico-commerciale a metà tra House of Cards e Succession, dove l’unica costante è il protagonismo compulsivo di un presidente che confonde la diplomazia con la roulette russa. Con una differenza: qui non si gioca con i gettoni, ma con l’equilibrio dell’economia mondiale.
Nel nome della sovranità commerciale e di un nazionalismo economico che ormai puzza di muffa, l’amministrazione Trump ha appena scatenato l’ennesima bomba atomica sul fragile equilibrio del mercato tecnologico globale. Un colpo da 104% in pieno volto alla Cina, con tariffe che sembrano uscite da un manuale di autodistruzione economica, ha riacceso le fiamme di una guerra commerciale che tutti fingevano dimenticata ma che, a quanto pare, era solo sopita.
Il contraccolpo è immediato, sistemico, e francamente prevedibile. La risposta di Pechino arriva puntuale come un razzo ipersonico: 84% di dazi sui prodotti americani. Benvenuti nel 2025, dove la globalizzazione è un ricordo vintage e la filiera tecnologica globale è diventata un campo minato geopolitico. Wedbush, attraverso la voce – sempre pessimista quanto realista – di Daniel Ives, non ha nemmeno bisogno di analizzare troppo: i tech non forniranno guidance. Nessuno sano di mente si azzarda a proiettare numeri nel caos. Apple inclusa.
Quando la politica fiscale diventa un’arma commerciale e l’e-commerce si trasforma in carne da macello doganale, non serve un veggente per capire che il vento è cambiato. TikTok Shop, la gallina dalle uova d’oro del retail made in China travestita da social entertainment, ha iniziato a lanciare allarmi ai suoi venditori cinesi: addio all’esenzione doganale, benvenuto inferno tariffario.
Con l’arrivo di maggio, il “de minimis” – quella magica soglia sotto gli 800 dollari che permetteva l’ingresso in USA di pacchi duty-free – sarà archiviato come un bel sogno ad occhi aperti. E come ogni sogno infranto in mano a un ex-presidente con la nostalgia da candidato, arriva la stangata: da 30% a 90% di dazio sul valore dei pacchi. Una tassa camuffata da protezionismo patriottico, che però, come sempre, finisce per colpire il consumatore finale… e l’algoritmo del prezzo più basso.
Quando Donald Trump minaccia dazi del 54% sui prodotti cinesi, a Wall Street il panico si trasforma in prassi. Ma mentre gli investitori abbandonano Apple come se avesse appena annunciato il ritorno del Newton MessagePad, i consumatori americani stanno correndo nei negozi come se fosse il Black Friday fuori stagione. Il motivo? La paura che l’iPhone diventi un oggetto di lusso stile Rolex.
Apple, che da sempre danza sull’orlo di una catastrofe geopolitica pur mantenendo i profitti a doppia cifra, si è trovata di colpo al centro di una corsa all’oro hi-tech: gente che affolla gli Apple Store chiedendo con ansia se “i prezzi aumenteranno domani”. I dipendenti, lasciati senza linee guida ufficiali dall’azienda, sono diventati improvvisamente i nuovi oracoli di Cupertino, costretti a improvvisare risposte mentre l’adrenalina scorre come un aggiornamento iOS mal riuscito.
Il mercato azionario mondiale sta attraversando una fase di turbolenza che ha attirato l’attenzione di molti osservatori, in particolare a causa della continua discesa dei principali indici. Tuttavia, mentre la narrativa prevalente suggerisce che le politiche economiche di Donald Trump siano la causa principale di questo calo, Scott Bessent, segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ha lanciato una visione contrastante, suggerendo che il vero fattore scatenante del crollo possa essere l’emergere di DeepSeek, un avanzato strumento di intelligenza artificiale sviluppato in Cina.
Bessent, intervistato da Tucker Carlson su Fox News, ha fatto un’affermazione provocatoria, chiarendo che la discesa dei mercati è iniziata ben prima dell’intensificarsi delle politiche tariffarie di Trump. Secondo lui, il vero catalizzatore del calo sarebbe stato l’annuncio del lancio di DeepSeek, l’innovativo modello di intelligenza artificiale cinese, che ha scosso i mercati globali con una potenza dirompente.
Il sogno dorato del Made in China, sold on Amazon si sta sbriciolando sotto i colpi di nuove barriere doganali statunitensi. E questa volta non si tratta di una mossa graduale o diplomatica. È una frustata, netta e rumorosa. Con la consueta grazia da bulldozer, l’amministrazione Trump ha fatto saltare due pilastri chiave del successo dell’e-commerce cinese negli Stati Uniti: da un lato un nuovo pacchetto di dazi fino al 34%, dall’altro la fine dell’esenzione de minimis per spedizioni inferiori a 800 dollari, che fino ad oggi garantiva una via d’accesso privilegiata alla giungla americana.
La reazione è stata immediata e prevedibile: panico operativo, prezzi ritoccati, sconti strappati con violenza dalle homepage, e un’ondata di esplorazioni in territori più ospitali – Europa, Medio Oriente, e chi più ne ha più ne cerchi. Il business transfrontaliero cinese, che ha visto una crescita a doppia cifra anno su anno, toccando quota 2,63 trilioni di yuan nel 2024 (pari a 361 miliardi di dollari), sta ora facendo i conti con un brusco risveglio.
La recente offensiva tariffaria del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha annunciato tariffe del 10% su tutti i Paesi e tariffe maggiori per quelli considerati i “peggiori trasgressori”, ha suscitato un’ondata di critiche tra gli economisti. La reazione a queste nuove misure economiche, che coinvolgono una vasta gamma di Paesi e si estendono a livello globale, non si è fatta attendere. Una delle critiche più severe è arrivata da Lawrence Summers, ex segretario del Tesoro e direttore del National Economic Council durante la presidenza di Barack Obama, che ha definito questa formula economica come “quello che il creazionismo è per la biologia”.
Quando Trump ha presentato la tabella delle tariffe nel giardino delle Rose, spiegando che l’amministrazione avrebbe applicato una tassa del 10% su tutte le importazioni e tariffe più elevate per i Paesi con i deficit commerciali più significativi, sono emerse numerose domande. Ad esempio, perché il Vietnam, un Paese che gli Stati Uniti hanno cercato di avvicinare negli ultimi anni per contrastare la Cina nella regione, è stato colpito da una tariffa del 46%? E perché i prodotti sudcoreani sono soggetti a una tariffa del 25%, mentre Taiwan, la Svizzera e l’Indonesia hanno rispettivamente il 32%, il 31% e il 32%?
The formula the White House posted. Photo: Handout
Non è un segreto che Peter Thiel abbia avuto un ruolo significativo nella politica di Trump, soprattutto durante le elezioni presidenziali del 2016. Thiel, uno dei fondatori di PayPal e un investitore di spicco nel settore tecnologico, ha dato il suo supporto esplicito alla candidatura di Trump, una mossa che ha suscitato molte discussioni, dato che Thiel è noto per le sue opinioni conservatrici e libertarie, che talvolta si scontrano con il mainstream politico degli Stati Uniti.
Donald Trump ha annunciato la sua nuova strategia commerciale brandendo un cartellone di cartone con la scritta “Reciprocal Tariffs”, scatenando immediatamente stupore e confusione. Il piano? Un dazio del 10% su tutte le importazioni negli Stati Uniti, comprese quelle provenienti da isole disabitate, e tariffe astronomiche su alcuni paesi, basate su una logica che non sembra aderire a nessuna analisi economica tradizionale. Il risultato immediato: il crollo dei mercati azionari e l’ombra di un’impennata dei prezzi su quasi tutti i beni di consumo.
Ma da dove saltano fuori questi numeri? Pare che la Casa Bianca abbia preso una scorciatoia matematica che assomiglia sospettosamente a quella suggerita da chatbot di intelligenza artificiale come ChatGPT, Gemini, Claude e Grok.
L’America torna grande. O almeno così dice Donald Trump, che ha annunciato l’introduzione di tariffe reciproche devastanti sui principali attori della catena di approvvigionamento dei semiconduttori. Cina colpita con un 34%, Taiwan con un 32% e il Giappone con un 24%. Un colpo diretto al cuore dell’industria tecnologica globale, con effetti immediati sui mercati finanziari e sull’intero ecosistema dei semiconduttori.
Dal Rose Garden della Casa Bianca, Trump ha proclamato quello che ha definito “il giorno della liberazione economica dell’America”, firmando un ordine esecutivo che introduce le nuove tariffe con un tono da crociata economica: “Abbiamo aspettato troppo a lungo… Oggi è il giorno in cui rendiamo l’America di nuovo ricca.” La strategia? Costringere le aziende tecnologiche a riportare la produzione in casa, evitando così i dazi.
Elon Musk, l’iconico imprenditore noto per le sue imprese spaziali e automobilistiche, sembra essere giunto al capolinea della sua avventura come “tagliatore di costi e di teste..” per il governo statunitense. Secondo un recente rapporto di Politico, il presidente Donald Trump avrebbe confidato ai suoi collaboratori più stretti che Musk si ritirerà nelle prossime settimane per tornare a concentrarsi sulle sue aziende, in particolare sulla travagliata Tesla.
La Casa Bianca ha minimizzato queste voci, affermando che Musk lascerà il suo incarico primaverile come previsto. Tuttavia, i segnali di una crescente tensione sono evidenti. Recentemente, in Wisconsin, l’elezione di Susan Crawford alla Corte Suprema dello Stato ha inflitto una sconfitta ai candidati conservatori sostenuti da Trump e Musk, evidenziando i limiti dell’influenza politica del magnate.
Questo articolo nasce dall’ispirazione fornita dal lavoro di Claudio Novelli (Yale University – Digital Ethics Center), Akriti Gaur (Yale Law School; Yale Information Society Project) e Luciano Floridi (Yale University – Digital Ethics Center; University of Bologna – Department of Legal Studies).
Two Futures of AI Regulation under the Trump Administration
SSRN PAPER : https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=5198926
Le loro ricerche mettono in luce il complesso rapporto tra regolamentazione dell’intelligenza artificiale, governance politica ed etica digitale, temi che oggi più che mai richiedono una riflessione approfondita. Il dibattito sulla regolamentazione dell’AI non è solo una questione tecnica, ma un crocevia di scelte politiche, economiche e filosofiche che determineranno il futuro della società digitale.
Lunedì, l’ex presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per istituire un nuovo ufficio che supervisionerà la CHIPS and Science Act e faciliterà investimenti esteri superiori al miliardo di dollari negli Stati Uniti. Il nuovo ente, denominato United States Investment Accelerator, sarà ospitato all’interno del Dipartimento del Commercio e si occuperà direttamente della gestione dell’ufficio CHIPS Program, responsabile della distribuzione dei 57,2 miliardi di dollari stanziati per rafforzare la ricerca e la produzione di semiconduttori negli Stati Uniti.
Nel panorama sempre più intricato delle relazioni tra settore pubblico e privato, Elon Musk continua a dimostrare una capacità unica di navigare e, talvolta, manipolare le correnti a suo favore. Recentemente, si è assistito a un fenomeno curioso: alcuni membri del Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE), l’entità semi-ufficiale guidata da Musk con l’obiettivo dichiarato di snellire la burocrazia federale, stanno facendo ritorno, in modo discreto, alle sue aziende private.
Prendiamo il caso di Marko Elez. Inizialmente allontanato dal Dipartimento del Tesoro a causa di post razzisti sui social media, Elez è stato successivamente reintegrato come dipendente del Dipartimento del Lavoro, con incarichi presso il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani (HHS) e altre agenzie. Le sue mansioni attuali lo vedono coinvolto in sistemi sensibili legati al supporto infantile, Medicare, Medicaid e contratti dell’HHS. Questa rivelazione è emersa nel contesto di una causa legale che mette in discussione l’accesso del team DOGE a database federali sensibili.
Jacob Helberg è il tipo di personaggio che riassume in sé tutte le contraddizioni e le peculiarità della politica americana contemporanea: giovane, ebreo, apertamente LGBT, ex finanziatore democratico ora convertito al trumpismo e, soprattutto, un feroce falco anti-Cina.
Nominato sottosegretario di Stato per la crescita economica, l’energia e l’ambiente da Donald Trump, Helberg non è solo un tecnocrate con un passato accademico solido, ma anche un insider della Silicon Valley con connessioni profonde nel mondo delle big tech e della sicurezza informatica. E, come si conviene a una figura del genere, ha finanziato il ritorno di Trump..
Il secondo atto della presidenza Trump sembra aver smantellato ogni pretesa di separazione tra tecnologia e politica. Quella che un tempo era una fredda distanza istituzionale tra la Silicon Valley e Washington si è trasformata in un vivace ballo di potere, dove CEO e politici danzano insieme sulle note di miliardi di dollari in lobbying. “Otto anni fa, non avresti mai visto Tim Cook o Elon Musk a Mar-a-Lago. Ora, li vedi in continuazione”, ha dichiarato Brian Ballard, lobbista di punta e uomo di fiducia dell’establishment repubblicano.
Il messaggio è chiaro: la tecnologia non è più solo un settore economico, ma un’arma geopolitica, un’infrastruttura di controllo sociale e una leva finanziaria per chi detiene il potere. Nel 2024, la spesa per lobbying federale ha raggiunto il record di 4,4 miliardi di dollari, con aziende, ONG e gruppi di interesse che hanno investito somme astronomiche per influenzare la politica. Al vertice della classifica, Meta Platforms, che ha speso oltre 24 milioni di dollari per proteggere il proprio impero mentre la politica si infiammava su privacy, libertà di espressione e sicurezza dei minori online.
La Silicon Valley non si limita più a sviluppare prodotti; ora scrive direttamente le regole del gioco. E con Trump di nuovo alla Casa Bianca, il gioco è diventato ancora più spregiudicato. L’industria tecnologica, che nel 2016 era più incline a finanziare candidati progressisti e a evitare legami con l’ex presidente, oggi ha smesso di fingere neutralità. La deregolamentazione promessa da Trump e la sua visione di un’America “forte e sovrana” hanno trasformato la tech élite da critici silenziosi a partecipanti attivi nel nuovo ordine politico.
Donald Trump torna a fare il mercante di opportunità politiche, questa volta usando TikTok come moneta di scambio. Secondo Bloomberg, l’ex presidente degli Stati Uniti sarebbe disposto ad abbassare i dazi sulle importazioni cinesi in cambio di un accordo che garantisca la vendita delle attività statunitensi della popolare app cinese.
Un colpo di scena che, se confermato, ribalterebbe anni di retorica trumpiana sulla guerra commerciale con Pechino.
Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno recentemente annunciato un piano decennale per investire 1,4 trilioni di dollari nell’economia statunitense, a seguito di incontri tra alti funzionari emiratini e il presidente Donald Trump. Questo impegno mira a potenziare significativamente gli investimenti esistenti degli EAU in settori chiave come l’infrastruttura dell’intelligenza artificiale, i semiconduttori, l’energia e la manifattura americana.
Nell’ambito di questo accordo, il fondo di investimento emiratino ADQ, in collaborazione con il partner statunitense Energy Capital Partners, ha annunciato un’iniziativa da 25 miliardi di dollari focalizzata su infrastrutture energetiche e data center. Inoltre, XRG, il braccio internazionale della compagnia petrolifera statale degli EAU, ADNOC, ha manifestato l’intenzione di supportare la produzione e l’esportazione di gas naturale negli Stati Uniti attraverso un investimento nell’impianto di esportazione di gas naturale liquefatto NextDecade in Texas.
Elon Musk che brandisce una motosega su un palco politico è un’immagine potente, ma potrebbe servire più che sceneggiate teatrali per salvare Tesla dalla spirale discendente in cui si trova. Un tempo sinonimo di innovazione e crescita esplosiva, il gigante dei veicoli elettrici è ora bloccato in una crisi profonda, con vendite in calo, concorrenza feroce e un fondatore sempre più divisivo. Se Musk non trova una soluzione, Tesla rischia di trasformarsi da rivoluzione tecnologica a caso di studio su come perdere il dominio di un settore che ha contribuito a creare.
Con l’avvicinarsi della scadenza per la richiesta di informazioni sul Piano d’azione per l’intelligenza artificiale, le voci di alcune delle aziende più influenti nel settore della tecnologia, tra cui Google, Anthropic, OpenAI, e altri, hanno sollevato una serie di richieste che potrebbero modellare il futuro dell’IA in modo significativo. Le posizioni di queste aziende variano, ma tutte mostrano un chiaro desiderio di influenzare le politiche pubbliche in modo favorevole alle proprie operazioni e visioni a lungo termine. L’elemento comune tra tutte queste proposte è l’ansia di evitare regolamenti eccessivi che potrebbero rallentare l’innovazione e compromettere la competitività globale.
Le richieste di Anthropic sono abbastanza chiare, e non sorprendenti per chi conosce la posizione cauta dell’azienda sul tema della sicurezza dell’intelligenza artificiale. Secondo Anthropic, i sistemi di IA di prossima generazione, quelli che si prevede emergeranno entro il 2026 o il 2027, avranno capacità intellettuali pari o superiori a quelle dei vincitori del premio Nobel in molte discipline e saranno in grado di ragionare in modo autonomo su compiti complessi. Per questo motivo, l’azienda sostiene che il governo federale debba sviluppare una capacità solida di monitoraggio, capace di valutare rapidamente i rischi e gli abusi potenziali per la sicurezza nazionale.
Le recenti notizie riportano che i rappresentanti della famiglia del presidente Donald Trump hanno avviato trattative per acquisire una partecipazione in Binance.US, la divisione americana del colosso delle criptovalute Binance. Parallelamente, il fondatore di Binance, Changpeng Zhao (noto come CZ), sta cercando di ottenere una grazia presidenziale.
Nel novembre 2023, CZ si è dimesso dalla carica di CEO di Binance dopo aver ammesso la violazione delle leggi statunitensi sull’antiriciclaggio, accettando un accordo da 4,3 miliardi di dollari per risolvere le indagini in corso. Successivamente, ha scontato una pena detentiva di quattro mesi negli Stati Uniti.
Il Take It Down Act, recentemente approvato dal Senato, rappresenta l’ennesimo tentativo di regolamentare la diffusione di immagini intime non consensuali, comprese quelle generate dall’intelligenza artificiale. La legge, sponsorizzata dai senatori Amy Klobuchar e Ted Cruz, introduce sanzioni penali per chiunque condivida questo tipo di contenuti e impone alle piattaforme di rimuoverli entro 48 ore dalla segnalazione, pena multe salate.
Non c’è dubbio che la diffusione di immagini intime senza consenso sia un problema serio e distruttivo, amplificato dall’uso crescente dell’IA. Tuttavia, dare alla nuova amministrazione Trump un ulteriore strumento di controllo sulla libertà di espressione potrebbe rivelarsi un errore pericoloso. Il rischio, è che questa legge diventi una “arma” nelle mani di Trump per colpire i suoi avversari politici e proteggere i suoi alleati, come Elon Musk, che attualmente collabora con il governo mentre gestisce X, una piattaforma già infestata da contenuti NCII, speriamo di sbagliare.
Nelle ultime settimane, tre dei principali colossi tecnologici, Tesla, Alphabet e Amazon, hanno registrato un calo significativo delle loro quotazioni azionarie, entrando in quello che gli analisti definiscono “territorio ipervenduto”. Questo fenomeno si verifica quando un titolo subisce una vendita massiccia, spesso oltre il suo valore intrinseco, suggerendo una potenziale opportunità di acquisto per gli investitori a lungo termine.
Il 6 marzo 2025, le azioni di Tesla hanno subito una flessione del 4,4%, spingendo l’analista Ben Kallo di Baird a classificarle come una “Bearish Fresh Pick”. Kallo, noto per le sue precedenti previsioni accurate, ha espresso preoccupazioni riguardo alle stime di consegna del primo trimestre, alla possibile interruzione della produzione del Model Y e alle vendite deboli in Cina ed Europa. Nonostante ciò, mantiene una visione positiva sul lungo termine, con un target price rivisto a 370 dollari, in calo rispetto ai precedenti 440 dollari.
Il CHIPS and Science Act, promulgato nel 2022, è stato concepito per stimolare la produzione domestica di semiconduttori negli Stati Uniti, stanziando 52,7 miliardi di dollari in sussidi per la produzione e la ricerca nel settore. L’obiettivo principale era ridurre la dipendenza dalle catene di approvvigionamento estere e rafforzare la sicurezza nazionale attraverso una maggiore autosufficienza tecnologica.
Tuttavia, il presidente Donald Trump ha recentemente espresso forti critiche nei confronti di questa legge, definendola una “cosa orribile” e suggerendo che i fondi stanziati dovrebbero essere reindirizzati per ridurre il debito nazionale. Secondo Trump, l’imposizione di nuovi dazi sarebbe una misura più efficace per incentivare le aziende a costruire fabbriche negli Stati Uniti, eliminando la necessità di ingenti sussidi governativi.
Il mercato si schianta, la Casa Bianca balbetta, i dazi vanno e vengono come un temporale estivo. Se non ti piace la politica commerciale di Trump, aspetta cinque minuti: cambierà di nuovo. Martedì sera, dopo due giorni di svendite di mercato causate dai suoi dazi su Canada e Messico, il segretario al Commercio Howard Lutnick è andato in TV a promettere che mercoledì sarebbe arrivato un compromesso. (Foxnews)
“Il mercato è crollato? Beh, forse scherzavamo.”
Gli investitori hanno capito il messaggio: mercoledì i mercati riprenderanno fiato, recuperando parte del 3% perso nello S&P 500. Ma chi pensa di poter rilassare i nervi, si sbaglia di grosso. Lutnick (Bloomberg) ha legato l’esistenza dei dazi al tasso di morti per fentanyl negli USA un criterio che, in termini di prevedibilità economica, è degno di un oroscopo finanziario. Oggi le tariffe servono, domani chissà.
Donald Trump ha deciso di vestire i panni del banchiere centrale 2.0, annunciando la creazione di una “riserva strategica crittografica” degli Stati Uniti. Un gesto che, per chi ancora pensava che le criptovalute fossero il male assoluto, suona come una conversione sulla via di Wall Street. E, ovviamente, il mercato ha reagito con il solito entusiasmo irrazionale, scatenando pump a doppia cifra su diverse coin.
Nel suo post su Truth Social, l’ex presidente ha dichiarato di aver dato mandato a un gruppo di lavoro presidenziale di “andare avanti” con la creazione di questa riserva digitale, in linea con un ordine esecutivo già firmato a gennaio. L’ordine, piuttosto vago all’epoca, ora prende forma con un elenco di asset da custodire nella cassaforte statunitense: bitcoin, ether, XRP di Ripple, Solana, Cardano e altre “criptovalute preziose”.
Jianwei Xun è un analista culturale e filosofo nato a Hong Kong il cui lavoro collega i mondi dei media, della teoria narrativa e della filosofia. Con un background in filosofia politica e studi sui media presso l’Università di Dublino, Xun ha trascorso anni come consulente su narrazioni strategiche per istituzioni globali prima di dedicarsi alla scrittura.
“Ipnocrazia“. Un titolo che promette di svelare i misteri della manipolazione moderna, con Trump e Musk come architetti di una nuova realtà. Jianwei Xun, un giovane prodigio già acclamato come l’erede di Baudrillard e Byung-Chul Han, ci offre una “mappa inedita” del potere contemporaneo.
L’amministrazione Trump sta tracciando una nuova rotta economica, con dichiarazioni e iniziative che puntano a ridisegnare il panorama finanziario e politico degli Stati Uniti, mettendo al centro la riduzione delle tasse, la riduzione della spesa pubblica e un aumento del debito. La proposta di bilancio del Partito Repubblicano, che già stava suscitando polemiche, diventa ancora più incisiva con l’indicazione di prepararsi a licenziamenti su larga scala nelle agenzie federali. Ma il quadro economico non si limita agli sviluppi interni; l’amministrazione si sta anche preparando ad affrontare sfide internazionali, con trattative in corso per accordi minerari strategici con l’Ucraina, a dimostrazione dell’approccio pragmatista adottato verso le alleanze internazionali.