Col termine “Zhuazhou” (抓周)si indica una cerimonia tradizionale cinese che si tiene il giorno del primo compleanno per celebrare la crescita dei bimbi e augurargli tanta prosperità. Da quest’autunno al compimento del 6 anno, i bambini di Pechino inizieranno il loro percorso scolastico con qualcosa di più del solito abbecedario: l’intelligenza artificiale. E no, non si tratta di semplici giochini educativi per stimolare la mente, ma di un curriculum vero e proprio che comprende l’uso di chatbot, le basi dell’etica dell’AI, e l’impatto sociale delle tecnologie emergenti. In pratica, mentre in Europa ci si scanna ancora sul divieto dei cellulari in classe, la Cina sta insegnando a bambini delle elementari come interagire consapevolmente con ChatGPT.
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La notizia ha un suono familiare, ma stavolta c’è una sfumatura inedita: la Food and Drug Administration americana ha appena concesso la designazione di “breakthrough device” al modello AI per la diagnosi del cancro sviluppato da Alibaba, noto come Damo Panda. E no, non è uno scherzo: un colosso tecnologico cinese, spesso sotto tiro per questioni geopolitiche e cybersicurezza, ottiene un timbro di eccellenza da parte dell’ente regolatore sanitario più influente al mondo. Questo, più che un’apertura, sa tanto di resa strategica: l’intelligenza artificiale, ormai, parla mandarino anche nel cuore del biomedicale USA.
Damo Panda è un modello deep learning pensato per scovare il cancro al pancreas nelle sue fasi iniziali, quelle che i radiologi umani spesso si perdono, soprattutto se il paziente non ha ancora sintomi. Lo fa elaborando immagini da TAC addominali non contrastografiche, una sfida clinica e computazionale niente male. Allenato su una base dati di oltre tremila pazienti oncologici, Panda ha dimostrato di battere i radiologi in sensibilità diagnostica del 34,1%. E non stiamo parlando di un benchmark simulato: in Cina ha già operato su 40.000 casi reali presso l’ospedale di Ningbo, individuando sei tumori pancreatici in fase precoce, di cui due erano sfuggiti completamente alle analisi umane. Un colpo basso alla medicina difensiva e ai cultori della seconda opinione.
Se mai avevate bisogno di una prova che il futuro non arriverà su ruote, ma su due gambe artificiali, la mezza maratona di Pechino dedicata ai robot umanoidi dovrebbe bastare. Il Tien Kung Ultra, un androide alto 180 cm e pesante 55 kg, ha completato i 21 km in circa 2 ore e 40 minuti, conquistando non solo il primo posto nella corsa, ma anche l’attenzione del mondo. Dietro questa impresa si muove un’ambizione più grande di una semplice vittoria sportiva: diventare l’Android degli umanoidi, l’ossatura software open source sulla quale far camminare e correre la futura intelligenza artificiale incarnata.

Mentre l’Occidente si distrae con il teatrino della politica interna e i mercati annaspano tra trimestrali tiepide e annunci fumosi sull’IA, Goldman Sachs decide di mandare in trasferta i suoi analisti più svegli per vedere con i propri occhi cosa sta bollendo nella pentola asiatica. Il risultato? Un vero schiaffo morale a Silicon Valley e Washington D.C.: la Cina è avanti. Di brutto. E non solo in un settore, ma in un ecosistema industriale che copre tutto, dai chip fotonici agli eVTOL, passando per robotaxi, server AI, e smartphone dal design impietosamente competitivo.
Il Private Tech Tour 2025 di Goldman è una sorta di via crucis high-tech da Shanghai a Shenzhen, con tappa a Guangzhou, durante il quale i cervelloni della banca d’investimento incontrano 19 aziende selezionate in otto settori critici. Ma la vera notizia non è l’elenco – peraltro interessante – delle società visitate. La notizia è che Goldman torna con un messaggio chiaro: l’Asia, e in particolare la Cina, non sta più inseguendo. Sta guidando. E non ha intenzione di aspettare che l’Occidente si svegli.

Jensen Huang non è un CEO qualsiasi. È un fondatore con il carisma di un rockstar e la strategia di un generale in guerra. La sua visita a sorpresa a Pechino non è solo un gesto diplomatico: è una mossa tattica in una partita a scacchi globale dove la tecnologia è il nuovo petrolio. Un giorno prima, gli Stati Uniti avevano imposto nuove restrizioni sull’esportazione dei chip H20 di Nvidia verso la Cina, con una perdita stimata di 5,5 miliardi di dollari. Il giorno dopo, Huang era già a cena con i cinesi, come se nulla fosse. O meglio, come se tutto fosse in gioco.
La visita, orchestrata con la discrezione che si riserva agli incontri tra rivali con interessi comuni, è avvenuta su invito della China Council for the Promotion of International Trade, un organo statale che ormai gioca il ruolo di ambasciatore ombra tra Pechino e le grandi corporate americane. Huang si è incontrato con il presidente Ren Hongbin, promettendo che Nvidia “non risparmierà sforzi” per ottimizzare i suoi prodotti secondo i vincoli normativi, e che “servirà in modo incrollabile” il mercato cinese. Tradotto dal linguaggio diplomatico: Nvidia farà tutto il necessario per non perdere la Cina, anche a costo di disegnare chip su misura per un Paese sotto embargo.

Mentre l’Occidente ancora dibatte sulla privacy dei dati sanitari e sull’etica dell’intelligenza artificiale applicata alla medicina, Ant Group la fintech figlia prediletta del colosso Alibaba ha già messo online cento dottori virtuali. O meglio: cento agenti AI, addestrati direttamente dai team di celebri medici cinesi e pronti a rispondere 24 ore su 24 tramite l’app Alipay. Non si tratta di chatbot generici: ognuno di questi agenti è modellato su un luminare in carne ed ossa, e promette “consigli autorevoli e credibili” con il tocco freddo ma immediato del silicio.
Sì, la sanità in Cina sta diventando un prodotto plug-and-play, un servizio embedded nell’ecosistema digitale di una super app. Il cittadino non deve più neppure uscire da Alipay originariamente un’app di pagamento per ottenere diagnosi, consulenze, analisi di referti caricati via smartphone e perfino prenotazioni per visite in presenza. Il cerchio è chiuso, l’utente è fidelizzato, il medico è virtuale.

Il profumo di autonomia non è più solo una questione di chilometri: ora è una guerra di cervelli in silicio. E mentre Nvidia gioca ancora a fare il monopolista nel campionato occidentale dell’AI automobilistica, Xpeng – il costruttore di EV cinese che un tempo sembrava l’ennesimo clone con touchscreen – ha deciso di farsi il cervello in casa. E non un cervello qualsiasi, ma un chip chiamato Turing, che secondo il fondatore e CEO He Xiaopeng, batte l’onnipresente Drive Orin X di Nvidia di tre volte in potenza computazionale. Tre. Volte.
Il messaggio è chiaro: o si innova, o si muore. E in Cina, dove l’EV è religione di Stato e la guida autonoma è diventata il nuovo campo di battaglia per il predominio tecnologico, la sopravvivenza passa dalla verticalizzazione assoluta. La Turing chip non è solo una dimostrazione di forza, è un atto politico, un gesto di indipendenza strategica in un’epoca dove i semiconduttori sono le nuove armi nucleari del XXI secolo.

La corsa globale all’intelligenza artificiale è un tritacarne. Gli Stati Uniti e la Cina sono impegnati in una guerra tecnologica dove il dominio sull’AI non è solo una questione di supremazia economica, ma un braccio di ferro geopolitico. Mentre le startup americane cavalcano la bolla della generative AI a colpi di venture capital e stock option, la Cina gioca la sua partita con ferocia quasi darwiniana: cervelli reclutati, rimpatriati, spremuti. E talvolta, prematuramente sepolti.
Negli ultimi anni, l’industria dell’AI in Cina ha perso alcune delle sue menti più brillanti, stroncate da malattie improvvise, stress, missioni militari o sfortune ad alta quota. Le storie sembrano uscite da un episodio di Black Mirror girato a Pechino: giovani talenti, progetti ambiziosi, pressioni etiche e ambienti di ricerca tossici che non concedono tregua.

SenseTime, la startup che da tempo ha smesso di comportarsi come tale, sta per far saltare il banco dell’intelligenza artificiale con una mossa tanto prevedibile quanto spregiudicata: moltiplicare a tre cifre la sua capacità di calcolo entro i prossimi due anni, spingendo sul pedale dei chip domestici in piena guerra tecnologica con gli Stati Uniti.
Yang Fan, co-fondatore di SenseTime e gran manovratore della divisione SenseCore, ha messo le carte sul tavolo. La capacità computazionale crescerà tra l’“alto doppia cifra” e il “tripla cifra” su base annua nei prossimi 24 mesi. Tradotto in numeri, nel 2024 si parla di un +92% rispetto all’anno precedente, con un totale che ha sfondato i 23.000 petaflops. Ma dietro ai numeri c’è molto di più: un progetto strategico per svincolarsi dalla dipendenza da chip statunitensi e una corsa dichiarata al profitto per il 2026. Il tutto, con una certa voglia di provocazione tecnologica made in China.

Nel teatro sempre più grottesco dell’economia globale, dove le regole del gioco sembrano essere scritte con l’inchiostro simpatico dell’interesse nazionale americano, la Cina ha deciso di mostrare i muscoli ma con il guanto bianco della diplomazia. Li Qiang, Premier della Repubblica Popolare, ha alzato la cornetta e parlato con Ursula von der Leyen per recitare un copione che sa di calma glaciale e determinazione sistemica: “abbiamo abbastanza strumenti politici in riserva” e “siamo pienamente in grado di contrastare gli shock esterni”.
Tradotto dal mandarino: Trump può pure giocare a Risiko con i dazi, noi giochiamo a Go con decenni di pianificazione centralizzata. Il messaggio è chiaro, e non è solo per l’Europa: Pechino non ha intenzione di piegarsi alla nuova ondata protezionistica partorita dalla Casa Bianca. Anzi, rilancia con il solito mantra del “difendere l’equità internazionale” un concetto che fa sorridere se pronunciato da un Paese che tiene in piedi il più sofisticato sistema di capitalismo di Stato mai concepito.

In un mercato sempre più saturo di fuffa e slide patinate, dove tutti si dichiarano pionieri dell’intelligenza artificiale, SenseTime ha deciso di alzare la voce e i numeri. L’azienda cinese ha lanciato due nuove versioni della sua suite AI, SenseNova V6 e V6 Reasoner, con una dichiarazione che ha il sapore del guanto di sfida: siamo meglio di OpenAI, punto.
Mentre in Occidente ci si perde tra conferenze stampa dal retrogusto evangelico e annunci scritti come se fossero la quarta sinossi di un film Marvel, in Cina si lavora. E i risultati, per quanto tutti da verificare sul campo, iniziano a diventare ingombranti. SenseTime afferma che il nuovo modello V6, equipaggiato con 600 miliardi di parametri una cifra che fa impallidire anche GPT-4o – ha surclassato il rivale americano in discipline fondamentali per l’AI del presente e del futuro: fact-checking, ragionamento numerico, analisi e visualizzazione dei dati. Tutte aree dove la precisione conta, e il marketing si ferma alla porta.
Xu Li, CEO e chairman del gruppo, ha snocciolato i risultati facendo riferimento a TableBench, una piattaforma indipendente che si propone come metro di paragone neutrale nel Far West dell’AI. Secondo questi benchmark, il V6 Reasoner non solo ha “ragionato meglio”, ma ha anche consumato meno risorse, offrendo il miglior costo-performance del settore. Una frecciatina nemmeno tanto velata a chi in Occidente punta su modelli da miliardi di dollari ma ancora allergici alla logica più spicciola.

Nel panorama sempre più complesso della tecnologia militare, la Cina sta dando una chiara direzione alle sue forze armate, con un focus particolare sulle capacità avanzate come la guerra navale basata sull’intelligenza artificiale (AI) e le operazioni spaziali. Queste aree emergenti sono al centro di una serie di articoli pubblicati dal Study Times, il giornale che fa capo alla Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese, dove i ricercatori dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) delineano le priorità strategiche del paese per i prossimi decenni. In particolare, la tecnologia AI è vista come il “fattore decisivo” per cambiare le regole della guerra futura, diventando la chiave per dominare i campi di battaglia di domani.
La mossa di Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, di enfatizzare l’importanza di “innovazioni audaci” e di una “nuova potenza di combattimento di qualità” risponde alla sua visione di una Cina sempre più potente e tecnologicamente avanzata sul piano militare. Durante una riunione del mese scorso, Xi ha sottolineato la necessità per la PLA di esplorare e sviluppare nuovi tipi di forze di combattimento, liberando il potenziale delle tecnologie emergenti per fronteggiare la “lotta militare” che la Cina prevede di dover affrontare.

Ne sentiremo parlare.
In un Paese che ha reso l’iperbole una forma d’arte politica, quando il Premier cinese Li Qiang ti chiama a raccolta tra un economista della logistica e un magnate del trasporto marittimo, qualcosa di simbolico sta accadendo. Peng Zhihui, classe 1993, fondatore della start-up AgiBot e ex enfant prodige di Huawei, è stato convocato tra le giovani speranze della tecnologia nazionale per un simposio a porte chiuse a Pechino. Un palcoscenico istituzionale che somiglia a un’investitura, più che a una riunione operativa.
Sotto il volto liscio del socialismo high-tech si nasconde un sottotesto chiarissimo: Pechino ha bisogno di nuovi idoli, possibilmente con un background da ingegneria applicata e un portfolio di robot bipedi pronti a spostare scatole o conquistare TikTok. E Peng, con il suo curriculum da sceneggiatura Marvel un braccio robotico alla Iron Man, un nickname virale (“Zhihuijun”), e un passato nei reparti AI di Huawei e Oppo è perfetto per la parte. Non un semplice imprenditore, ma un totem narrativo per una Cina che vuole ribadire che la partita dell’intelligenza artificiale non è a esclusivo appannaggio della Silicon Valley.

Alibaba Cloud ha recentemente annunciato un significativo potenziamento delle sue offerte di intelligenza artificiale per i clienti internazionali, presentando nuovi modelli e strumenti avanzati durante l’evento Spring Launch 2025. Questa mossa strategica evidenzia l’ambizione di Alibaba di consolidare la sua presenza nel mercato globale dell’IA, sfidando direttamente i colossi occidentali del settore.
Al centro di questa iniziativa c’è l’espansione dell’accesso ai modelli linguistici avanzati della serie Qwen. Tra questi spiccano Qwen-Max, un modello su larga scala basato su una struttura Mixture of Experts (MoE), QwQ-Plus, focalizzato sul ragionamento, QVQ-Max, specializzato nel ragionamento visivo, e Qwen2.5-Omni-7B, un modello multimodale end-to-end. Questi modelli sono ora disponibili attraverso le zone di disponibilità di Alibaba Cloud a Singapore, offrendo ai clienti internazionali strumenti potenti per l’analisi dei dati, l’automazione e la creazione di contenuti.

Mentre la tempesta perfetta della guerra commerciale globale fa tremare le fondamenta dei mercati finanziari, con l’indice Hang Seng che registra il peggior tonfo giornaliero degli ultimi trent’anni, un’azienda di intelligenza artificiale con base a Pechino decide di premere sull’acceleratore. AICT, specializzata in tecnologie AI ad alta precisione per il controllo del traffico e la gestione dei parcheggi in oltre 50 città cinesi, annuncia con spavalderia la sua intenzione di presentare domanda di quotazione alla borsa di Hong Kong entro fine mese.
In barba ai segnali macroeconomici da codice rosso, AICT vuole raccogliere almeno 200 milioni di dollari attraverso la sua IPO. Secondo quanto trapela da fonti vicine all’operazione, l’obiettivo è ambizioso ma strategicamente calcolato. Per Yan Jun, fondatore e presidente della compagnia, non si tratta di una scommessa cieca ma di una mossa studiata: “Meglio essere già in pista. Se il mercato migliora, siamo pronti a decollare. Se resta turbolento, almeno siamo in posizione”.

Il sogno dorato del Made in China, sold on Amazon si sta sbriciolando sotto i colpi di nuove barriere doganali statunitensi. E questa volta non si tratta di una mossa graduale o diplomatica. È una frustata, netta e rumorosa. Con la consueta grazia da bulldozer, l’amministrazione Trump ha fatto saltare due pilastri chiave del successo dell’e-commerce cinese negli Stati Uniti: da un lato un nuovo pacchetto di dazi fino al 34%, dall’altro la fine dell’esenzione de minimis per spedizioni inferiori a 800 dollari, che fino ad oggi garantiva una via d’accesso privilegiata alla giungla americana.
La reazione è stata immediata e prevedibile: panico operativo, prezzi ritoccati, sconti strappati con violenza dalle homepage, e un’ondata di esplorazioni in territori più ospitali – Europa, Medio Oriente, e chi più ne ha più ne cerchi. Il business transfrontaliero cinese, che ha visto una crescita a doppia cifra anno su anno, toccando quota 2,63 trilioni di yuan nel 2024 (pari a 361 miliardi di dollari), sta ora facendo i conti con un brusco risveglio.

Luo Jianlan, una delle menti più brillanti nel campo dell’intelligenza artificiale e della robotica, ha lasciato Google per unirsi alla start-up cinese AgiBot, nota in patria come Zhiyuan. Il suo nuovo ruolo? Capo scienziato presso il Zhiyuan Embodied Intelligence Research Centre, un’iniziativa che punta a spingere la Cina in prima linea nella produzione di robot umanoidi avanzati.
Non è solo una mossa individuale, ma un segnale chiaro di una tendenza più ampia: il rientro in patria di scienziati formati negli Stati Uniti, pronti a contribuire all’ecosistema tecnologico cinese. Luo, con un dottorato conseguito alla UC Berkeley e un background di ricerca a Google X e DeepMind, porta con sé una profonda esperienza nell’autonomia a lungo termine per sistemi complessi.

Zhu Songchun, Chair Professor, Peking University & Tsinghua University. Founding Director, Beijing Institute for General Artifical Intelligence (BIGAI) Dean, Institute for Artifical Intelligence & School of Intelligence Science and Technology, Peking University, uno dei massimi esperti cinesi di intelligenza artificiale, ha lanciato un monito chiaro:
la Cina rischia di perdersi in un vortice di investimenti caotici nell’IA, inseguendo modelli occidentali senza una solida base teorica e filosofica.
Durante il Zhongguancun Forum di Pechino, Zhu ha criticato la mancanza di comprensione profonda della tecnologia da parte di governi, media e opinione pubblica, sottolineando come questa lacuna renda difficile una pianificazione strategica efficace.

Negli ultimi anni, Pechino ha investito massicciamente nell’intelligenza artificiale, cercando di costruire un ecosistema tecnologico in grado di competere con i giganti americani. Il lancio di chatbot come DeepSeek, capace di rivaleggiare con ChatGPT, ha dimostrato la rapidità con cui la Cina sta colmando il gap tecnologico. Tuttavia, secondo Zhu, il vero progresso non può limitarsi agli strati superficiali dell’innovazione, come algoritmi e modelli, ma deve scavare più in profondità, nelle fondamenta teoriche e filosofiche dell’IA.

Il campo delle interfacce cervello-computer (BCI) si sta rapidamente trasformando da un sogno fantascientifico a una realtà concreta, e la competizione tra Stati Uniti e Cina per il dominio tecnologico si sta facendo sempre più serrata. Fino a pochi mesi fa, Neuralink di Elon Musk sembrava il principale candidato al trono di questa rivoluzione, ma ora la Cina ha ufficialmente raggiunto la stessa soglia di progresso con il suo sistema Beinao No 1, sviluppato dall’Istituto di Ricerca sul Cervello di Pechino (CIBR) e dalla sua startup affiliata NeuCyber NeuroTech.
Tra febbraio e marzo, Beinao No 1 ha eseguito con successo tre impianti su pazienti umani, gli stessi numeri finora dichiarati da Neuralink. Questo segna un punto di svolta per la Cina, che non solo ha raggiunto gli Stati Uniti nel numero di pazienti impiantati, ma ha anche ottenuto il supporto attivo del governo per la commercializzazione della tecnologia. La provincia dell’Hubei ha già stabilito un tariffario ufficiale per gli impianti cerebrali: 6.552 yuan (circa 902 dollari) per l’operazione e 3.139 yuan per la rimozione. Anche i dispositivi non invasivi hanno un prezzo fisso, 966 yuan per l’adattamento. Una mossa che evidenzia la strategia di Pechino per trasformare la BCI in un mercato accessibile e scalabile.

Microsoft chiude il suo laboratorio AI a Shanghai, Apple perde un altro ingegnere di punta, e nel frattempo Trump usa TikTok come merce di scambio nei negoziati con Pechino. Tre notizie separate, ma un unico filo conduttore: la disgregazione tecnologica tra Stati Uniti e Cina sta accelerando, con effetti imprevedibili.
Microsoft e la ritirata silenziosa
La chiusura del laboratorio AI di Microsoft a Shanghai è solo l’ultimo segnale di un trend ormai evidente: le grandi aziende tecnologiche occidentali stanno riducendo la loro presenza in Cina. Ufficialmente, la decisione sarebbe legata a una riorganizzazione interna e alla crescente concorrenza dei colossi cinesi dell’intelligenza artificiale come Baidu e Huawei. Ma il contesto geopolitico è innegabile: tra tensioni sui semiconduttori, divieti commerciali e spionaggio industriale, la Silicon Valley non si fida più del mercato cinese.

Il recente scossone nei titoli tecnologici non ha scalfito minimamente la fiducia degli investitori cinesi. Anzi, secondo Judy Hsu, CEO per il wealth e retail banking di Standard Chartered, i grandi patrimoni della Cina continentale restano fermamente convinti che il settore tecnologico sia una miniera d’oro a lungo termine. Poco importa se le valutazioni sembrano gonfiate o se i ribassi recenti avrebbero dovuto mettere in guardia anche i più ottimisti. Il mantra è sempre lo stesso: il futuro appartiene alla tecnologia, e la Cina ne sarà il cuore pulsante.
Questa fiducia quasi cieca è stata alimentata dal boom dell’intelligenza artificiale, con il recente exploit di DeepSeek, la startup cinese che ha lanciato due modelli di linguaggio capaci di competere con il celebre ChatGPT di OpenAI, ma a costi e consumi di calcolo decisamente inferiori. La notizia ha innescato una corsa sfrenata ai titoli tech, facendo impennare l’Hang Seng Tech Index di quasi il 30% in poco più di un mese. Poi, inevitabilmente, è arrivata la frenata: profit-taking e una correzione dell’8,5% hanno riportato i piedi per terra alcuni investitori. Ma il messaggio di fondo resta: il mercato continuerà a crescere.

La Cina ha alzato il sipario sulla sua ultima meraviglia tecnologica: il Caihong-9 (Rainbow-9), un drone ad alta autonomia e intelligenza artificiale avanzata, pronto a ridefinire il concetto di guerra senza piloti. Questo UAV (Unmanned Aerial Vehicle) non è solo un velivolo da ricognizione, ma una vera e propria piattaforma bellica autonoma capace di cambiare le regole del gioco nei conflitti moderni.
L’ultima dimostrazione pubblica, trasmessa dalla CCTV, ha mostrato il Rainbow-9 in volo per oltre 20 ore consecutive, equipaggiato con moduli di carico di ultima generazione. Ma il dato più impressionante è la sua autonomia teorica di 40 ore e oltre 10.000 km di raggio operativo, posizionandolo tra i droni più resistenti e versatili al mondo. Questo significa che, con un solo volo, potrebbe monitorare intere regioni strategiche: dalla penisola coreana a Taiwan, dalle Filippine al Vietnam, per poi tornare in Cina senza problemi.

L’intelligenza artificiale sta seminando un nuovo futuro nelle campagne cinesi. DeepSeek, una startup di Hangzhou, ha innescato una frenesia nazionale con i suoi modelli open source, spingendo persino gli agricoltori più conservatori ad abbracciare la tecnologia. Grazie a una connettività capillare e alla diffusione della telefonia mobile, milioni di abitanti delle zone rurali stanno scoprendo che un chatbot può essere tanto utile quanto un buon trattore.
Nelle province di Jilin e Guangdong, i contadini non si limitano più a scrutare il cielo per prevedere il tempo: chiedono direttamente ai chatbot consigli su quando seminare, come identificare parassiti o persino come accedere ai sussidi governativi. I grandi colossi tecnologici cinesi, come Tencent e Alibaba, hanno colto l’opportunità con una rapidità impressionante, lanciando modelli AI facili da usare e personalizzati per le esigenze rurali. Tencent ha perfino schierato un team dedicato con la missione “AI Goes Rural”, modificando i suoi algoritmi per riconoscere piante e animali o per interagire vocalmente con chi magari non ha molta familiarità con la scrittura digitale.

Il mondo della cybersecurity è nuovamente in allerta: FamousSparrow, gruppo APT (Advanced Persistent Threat) allineato alla Cina, ha ripreso le proprie attività di cyberspionaggio, colpendo organizzazioni negli Stati Uniti, in Messico e in Honduras. Dopo un’apparente inattività di due anni, i ricercatori di ESET hanno scoperto nuove varianti della backdoor SparrowDoor e l’impiego, per la prima volta, del malware ShadowPad.

Google ha deciso di cambiare le regole del gioco per Android, e la Cina è sul piede di guerra. Dopo anni di sviluppo open-source con aggiornamenti pubblici e costanti, Mountain View ha deciso di blindare il processo interno, rilasciando il codice solo con le major release. Ufficialmente, nulla cambierà: la promessa agli sviluppatori cinesi è che Android resterà open-source. Ma la fiducia è già incrinata, e il sospetto è che Google stia rafforzando le sue difese contro la crescente indipendenza tecnologica della Cina.
Dietro questa mossa si nasconde un dilemma strategico. Da un lato, il modello aperto ha permesso ad Android di conquistare il 71% del mercato mobile globale, dando accesso a miliardi di utenti e permettendo a produttori come Xiaomi, Oppo e Vivo di costruire i loro ecosistemi. Dall’altro, questa apertura ha favorito anche l’ascesa di Huawei, che, spinta dalle sanzioni USA, ha sviluppato HarmonyOS, ormai incompatibile con le app Android.

Se c’è una certezza nel panorama dell’intelligenza artificiale, è che la corsa allo sviluppo di modelli sempre più avanzati ha preso la forma di una competizione geopolitica senza esclusione di colpi. Eppure, secondo Zeng Yi, membro del comitato consultivo AI delle Nazioni Unite e professore dell’Accademia cinese delle scienze, questa impostazione potrebbe essere il più grande errore strategico di Washington.
Durante il Boao Forum for Asia, Zeng ha criticato l’atteggiamento degli Stati Uniti nel voler escludere la Cina dai network internazionali di sicurezza per l’IA, definendolo “una decisione molto sbagliata”. Il messaggio di fondo è chiaro: la sicurezza nell’IA non può essere un gioco a somma zero, e se le due superpotenze non trovano un terreno comune, il rischio è che si creino standard divergenti, regolamentazioni incompatibili e falle pericolose nella governance dell’IA.

Il 25 marzo 2025, il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha compiuto un passo significativo nella sua politica di contenimento nei confronti della Cina, aggiungendo ben 80 entità alla sua “entity list”. Si tratta di una mossa senza precedenti che segna un nuovo capitolo nella guerra tecnologica tra le due superpotenze, specialmente nel settore dell’intelligenza artificiale e dei supercomputer avanzati.
Questo intervento, il primo di una lunga serie iniziata con l’amministrazione Trump, ha avuto ripercussioni immediate, con Pechino che ha condannato fermamente l’azione e accusato Washington di voler manipolare la sicurezza nazionale per i propri scopi geopolitici.
L’inserimento di 80 organizzazioni nella lista nera ha coinvolto oltre 50 realtà cinesi, accusate di danneggiare gli interessi di sicurezza nazionale e politica estera degli Stati Uniti. Tra le aziende vietate vi sono alcune delle più potenti del settore tecnologico cinese, comprese quelle coinvolte nello sviluppo di intelligenza artificiale avanzata, supercomputer e chip ad alte prestazioni utilizzati in ambito militare.

BMW e Alibaba hanno recentemente annunciato un’espansione della loro partnership strategica in Cina, con l’obiettivo di integrare modelli di linguaggio AI di grandi dimensioni (LLM) nei veicoli di prossima generazione del marchio tedesco. Questa collaborazione prevede l’integrazione dell’AI Qwen di Alibaba nei modelli Neue Klasse di BMW, la cui produzione in Cina è prevista per il 2026.
L’obiettivo dichiarato è sviluppare un assistente personale intelligente (IPA) avanzato, capace di comprendere e rispondere a comandi vocali complessi. Ad esempio, gli utenti potranno pianificare una serata fuori, con il sistema che analizzerà dati in tempo reale su traffico, recensioni dei locali e preferenze personali per fornire suggerimenti personalizzati.
Questa mossa rappresenta un ulteriore passo avanti nella strategia di BMW di rafforzare la propria presenza nel mercato cinese attraverso collaborazioni con giganti tecnologici locali. Già nel 2018, BMW aveva iniziato a integrare l’assistente vocale Tmall Genie di Alibaba nei suoi veicoli destinati al mercato cinese. Successivamente, nel 2020, le due aziende hanno firmato un Memorandum of Understanding per promuovere la trasformazione digitale dell’intero processo aziendale di BMW in Cina.

Nel cuore della battaglia tecnologica tra Cina e Stati Uniti, un nome nuovo si sta facendo largo a colpi di innovazione e ambizione: SiCarrier. Questo produttore cinese di attrezzature per la produzione di semiconduttori, legato a Huawei, ha catalizzato l’attenzione alla fiera Semicon China, dove ha svelato una serie di nuovi strumenti che potrebbero ridurre la dipendenza del paese dalle tecnologie occidentali. (photo Ann Cao)
A soli quattro anni dalla sua fondazione, con il sostegno del governo di Shenzhen, SiCarrier ha mostrato per la prima volta al pubblico le sue macchine per la fabbricazione e il testing di chip. Nonostante il velo di riservatezza che ancora circonda le specifiche tecniche dei suoi strumenti, gli addetti ai lavori ipotizzano che le tecnologie dell’azienda abbiano avuto un ruolo nella produzione dei chip da 7 nanometri sviluppati da Huawei per il Mate 60 Pro nel 2023.

Joe Tsai, presidente di Alibaba Group Holding, ha recentemente lanciato una serie di domande filosofiche sulla reale capacità dell’intelligenza artificiale di superare l’intelligenza umana e sull’effettiva utilità dei robot umanoidi. In un’epoca in cui l’IA sembra essere la chiave per risolvere ogni problema, la sua riflessione non è solo provocatoria, ma mette a nudo i limiti di una visione troppo semplicistica del futuro tecnologico.
Tsai ha parlato durante la finale di Jumpstarter a Hong Kong, un evento organizzato dal fondo per imprenditori di Alibaba per sostenere le startup emergenti. Pur riconoscendo il potenziale trasformativo dell’IA, ha sollevato dubbi sul concetto di intelligenza artificiale generale (AGI). Se le macchine possono elaborare informazioni più velocemente degli esseri umani, ciò le rende davvero più intelligenti? Secondo Tsai, la risposta è no. L’intelligenza umana non è solo calcolo e logica: è emozione, empatia, capacità di interazione sociale. E su questi aspetti, l’IA è ancora distante anni luce.

Ant Group, il colosso fintech affiliato ad Alibaba, sta riscrivendo le regole del gioco nell’intelligenza artificiale. Mentre gli Stati Uniti impongono restrizioni sempre più rigide sull’export di chip avanzati, la Cina risponde con innovazione e adattamento. Il team Ling di Ant ha dimostrato che è possibile addestrare modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) utilizzando GPU di produzione locale, riducendo così la dipendenza da Nvidia e abbattendo i costi di training del 20%. La notizia, che potrebbe ridisegnare il mercato AI, è stata pubblicata su arXiv, una piattaforma di ricerca scientifica open-access.

L’impero di Tencent si allarga ancora, e questa volta punta sulle macchine umanoidi. Il colosso cinese dei videogiochi e dei social media ha ufficialmente investito in Agibot, una delle startup più promettenti nel panorama della robotica. L’operazione conferma il crescente interesse dei giganti tech cinesi per un settore che sta rapidamente diventando un campo di battaglia per venture capitalist, fornitori di componenti e colossi industriali con tasche profonde.
Agibot, nota anche come Zhiyuan Robotics, ha completato un nuovo round di finanziamenti che ha visto la partecipazione di investitori di peso come Lanchi Ventures, Longcheer Technology, Wolong e Zhuhai Huafa Group. Non sono stati divulgati i dettagli sugli importi, ma secondo Tianyancha, il capitale registrato della società è aumentato a 80,46 milioni di yuan (circa 11,1 milioni di dollari) dai precedenti 76,37 milioni. Numeri che confermano la solidità finanziaria della startup e il suo appeal per chi scommette sulla robotica come prossimo grande business.

Joe Tsai, presidente di Alibaba Group Holding (e NETS), ha lanciato un segnale d’allarme sul frenetico afflusso di investimenti globali nelle infrastrutture per l’intelligenza artificiale (AI), evocando lo spettro di una bolla speculativa simile a quella della dot-com. La sua preoccupazione principale? Un’ondata di capitali che si riversa sulla costruzione di data center senza una chiara domanda di utilizzo, un fenomeno che sta assumendo i contorni di una scommessa al buio.
Tsai ha fatto riferimento a progetti mastodontici come Stargate, la joint venture tra OpenAI e SoftBank, che ha promesso investimenti per 500 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni. Secondo lui, gli investimenti in AI negli Stati Uniti stanno superando la domanda reale, alimentando un entusiasmo irrazionale che potrebbe portare a un brusco risveglio. In altre parole, mentre le aziende si sfidano a chi costruisce il più grande tempio dell’AI, potrebbero ritrovarsi con cattedrali nel deserto.

Il panorama dell’intelligenza artificiale è stato recentemente scosso dall’ascesa fulminea di DeepSeek, una startup cinese che ha rapidamente scalato le classifiche dell’App Store di Apple negli Stati Uniti, superando persino ChatGPT. Fondata nel 2023 da Liang Wenfeng, DeepSeek ha sorpreso il mondo tecnologico non solo per le sue capacità avanzate, ma anche per l’approccio open-source, inusuale per una realtà cinese, che ha permesso agli sviluppatori di tutto il mondo di esaminare e costruire sulla sua tecnologia.
L’ultimo aggiornamento, denominato V3-0324, è stato pubblicato su Hugging Face senza alcun annuncio formale. Secondo l’azienda, questo update apporta miglioramenti significativi nelle performance di benchmark, nell'”eseguibilità del codice” e nell’analisi dei report, offrendo output più dettagliati. Tuttavia, la mancanza di una comunicazione ufficiale solleva interrogativi sulla trasparenza e sulle reali capacità di questo aggiornamento.

I robot umanoidi di Unitree Robotics non arriveranno nelle case tanto presto, almeno non nei prossimi due o tre anni. Il motivo? Questione di sicurezza. Lo ha confermato Wang Xingxing, fondatore e CEO della società cinese, in un’intervista a media governativi. In parole povere, il sogno di avere un aiutante robotico che cucini e pulisca per noi dovrà aspettare. E forse è meglio così, considerando che l’ultima dimostrazione di Unitree ha mostrato un G1 che, più che uno chef, sembrava un bambino pasticcione: uova rotte, latte versato, un disastro.

Immagina un mondo in cui la realtà fisica e quella digitale si fondono senza soluzione di continuità. Un futuro in cui le riunioni aziendali sono popolate da ologrammi perfettamente interattivi, mentre le auto a guida autonoma sfrecciano per le città grazie a copie digitali della realtà in tempo reale. Questa non è fantascienza, ma la promessa del 6G, la sesta generazione delle telecomunicazioni mobili.
Mentre la maggior parte del mondo sta ancora cercando di sfruttare appieno il potenziale del 5G, la corsa al 6G è già iniziata, con un attore dominante: la Cina. Pechino ha ufficialmente stabilito tre standard tecnologici per il 6G sotto l’egida dell’International Telecommunication Union (ITU), mettendosi in una posizione di vantaggio rispetto ai rivali occidentali, che appaiono più cauti – o forse solo in ritardo.

L’industria cinese dei semiconduttori si sta muovendo sottotraccia, ma con obiettivi chiari: ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti e costruire un ecosistema tecnologico autosufficiente. L’ultimo colpo di scena arriva da SiCarrier, un produttore di strumenti per la fabbricazione di chip con sede a Shenzhen, sostenuto dallo Stato e legato a Huawei.
Il debutto ufficiale di SiCarrier avverrà la prossima settimana al Semicon China di Shanghai, un evento organizzato dall’associazione americana SEMI. La sua presenza rappresenta un segnale forte, perché la società, fino ad ora, ha mantenuto un profilo bassissimo, quasi da fantasma industriale. Il sito ufficiale elenca solo quattro strumenti di produzione a bassa tecnologia e non fornisce dettagli sulla proprietà o sul management. Unica eccezione? Una dichiarazione di compliance che promette il rispetto della proprietà intellettuale di terzi. Una mossa più diplomatica che sostanziale.

Mentre l’Occidente si dibatte tra regolamentazioni e investimenti miliardari in intelligenza artificiale, la Cina sferra un colpo diretto a Silicon Valley con 01.AI, la startup fondata dal veterano dell’AI Lee Kai-fu. In meno di otto mesi, la società ha raggiunto lo status di unicorno, superando la valutazione di un miliardo di dollari grazie al suo modello open-source Yi-34B, che batte le alternative americane su metriche chiave. Un’ulteriore dimostrazione che la supremazia nell’intelligenza artificiale non è più esclusiva di OpenAI, Google e Meta.