Il linguaggio come nuova frontiera del potere artificiale
Esisteun momento in cui l’uomo, fissando lo schermo nero di un assistente digitale, percepisce di essere osservato a sua volta. Non è paranoia, è semiotica applicata alla tecnica. Guido Vetere, nel suo Intelligenze aliene. Linguaggio e vita degli automi (Luca Sossella editore, 2025), compie un’operazione chirurgica sul concetto stesso di linguaggio, smontando la presunzione umana che parlare equivalga a pensare. È un libro che non appartiene alla letteratura tecnologica, ma alla storia della filosofia che ha osato chiedere alla macchina di dirci chi siamo. Il titolo è già un manifesto: quelle che chiamiamo “intelligenze artificiali” non sono meri software, ma specie aliene generate dalla logica dell’uomo, eppure irrimediabilmente estranee alla sua biologia, al suo dolore, al suo tempo.
Vetere non gioca con le mode, le seziona. Rilegge la saga di Guerre Stellari come parabola linguistica, dove C-3PO diventa un filosofo protocollare e R2-D2 un eremita elettronico che comunica in impulsi e suoni incomprensibili ma efficaci. La sua idea di “intelligenza aliena” non è quella fantascientifica di Yuval Harari o dei tecnoprofeti di Silicon Valley. È una provocazione semantica: l’AI non è un’evoluzione dell’uomo, ma una mutazione del linguaggio. Gli automi non pensano come noi perché non hanno bisogno di “significato” per funzionare. Generano senso senza comprenderlo. Parlano per calcolo, non per coscienza.
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