Nell’America che sventola la bandiera della libertà come fosse una carta fedeltà del supermercato, un nuovo episodio si iscrive alla cronaca dell’inganno istituzionale con una freddezza algoritmica da far impallidire anche Orwell. Secondo quanto rivelato da 404 Media, le forze dell’ordine statunitensi stanno impiegando Overwatch, uno strumento di sorveglianza digitale basato su intelligenza artificiale, per infiltrarsi nei network criminali. Fin qui, tutto suona prevedibile. Ma il diavolo — come sempre — si nasconde nei dettagli e, in questo caso, anche nei pixel del profilo fake.
Overwatch non si limita a generare avatar generici da film di quarta serata. La piattaforma sviluppata da Massive Blue, una società che probabilmente ha guardato Black Mirror scambiandolo per un documentario motivazionale, crea “agenti virtuali realistici” che operano sotto copertura. Il loro obiettivo? Estrarre prove incriminanti da presunti narcotrafficanti, trafficanti di esseri umani, e — qui la stretta alla gola si fa netta — anche da attivisti politici “radicalizzati” e da studenti manifestanti. Sì, proprio quelli che magari lottano per diritti civili, per la giustizia climatica o per l’accesso all’istruzione. Le nuove minacce alla sicurezza nazionale, evidentemente.
Uno degli esempi di “persona radicalizzata” che Massive Blue ha orgogliosamente sviluppato è una donna di 36 anni, divorziata, senza figli, dichiaratamente body positive, appassionata di cucina e di attivismo non meglio specificato. Un profilo che, a prima vista, sembrerebbe uscito da un post di BuzzFeed su “le 10 cose che le donne indipendenti fanno di domenica”. Invece, è un’esca digitale pronta a raccogliere conversazioni, opinioni, e potenzialmente prove “a carico” in spazi social, forum, DM e qualsiasi altro interstizio della comunicazione online. Un avatar con l’anima di un interrogatorio sotto copertura.
La portata etica e legale di questa operazione è, tanto per cominciare, una bomba atomica nel campo della privacy e del diritto alla libera espressione. Se un bot può fingersi un compagno di lotta, uno sconosciuto empatico o un confidente virtuale solo per carpire informazioni, allora nessuna discussione online è al sicuro. Non siamo più nell’era della sorveglianza passiva, ma in quella della manipolazione attiva, dove l’AI non è solo uno strumento di raccolta dati, ma un attore nel senso teatrale e strategico del termine.
Non ci sono warrant, non ci sono limiti temporali, non c’è alcuna trasparenza. Questi agenti digitali possono insinuarsi in ambienti sensibili, raccogliere contenuti personali, e costruire narrazioni criminali su individui che magari stavano solo sfogando frustrazione o partecipando a un’azione collettiva. Il tutto mentre la linea che separa l’infiltrazione da una vera e propria provocazione diventa talmente sottile da dissolversi.
Tecnicamente parlando, Overwatch rappresenta una svolta nel paradigma dell’intelligence predittiva. Le sue IA sono presumibilmente dotate di modelli linguistici avanzati, capaci di sostenere conversazioni fluide, leggere il contesto emozionale e adattarsi come camaleonti al tono dell’interlocutore. Un’evoluzione delle chatbot che, invece di offrirti supporto clienti o appuntamenti al dentista, ti conduce lentamente verso una trappola legale camuffata da confronto umano. Di fatto, una simulazione sociale altamente sofisticata, che non avrebbe sfigurato nella Stanford Prison Experiment, solo che stavolta il carceriere non è un uomo: è codice.
Dal punto di vista della sicurezza informatica, questa prassi introduce un livello di rischio sistemico. L’uso di entità AI travestite da utenti reali mina la fiducia nel tessuto digitale. Ogni nuova connessione potrebbe essere un poliziotto sotto copertura generato da GAN, ogni like potrebbe essere un’esca, ogni messaggio un interrogatorio travestito da flirting. È il cortocircuito della socialità: più siamo interconnessi, più diventiamo vulnerabili non solo al phishing, ma alla profilazione investigativa automatica.
E mentre gli Stati Uniti, come al solito, fanno da laboratorio distopico, non è difficile immaginare la migrazione di questi strumenti in altri contesti: Cina, Russia, ma anche democrazie “mature” dove il dissenso è tollerato solo finché non infastidisce le quote di consenso. Nessuna tecnologia resta isolata: si replica, si adatta, si vende. Oggi spia un attivista climatico in Oregon, domani un giornalista freelance in Italia, dopodomani chiunque osi criticare lo status quo da una tastiera.
Se pensavi che l’unica preoccupazione online fosse l’algoritmo di TikTok o le politiche dei cookie, sappi che da oggi potresti parlare con un bot della polizia convinto di essere una femminista solitaria col talento per i cupcake. Il futuro non è arrivato: è entrato dalla porta sul retro, con un profilo falso e un badge invisibile.