Apple 2027: vent’anni di iPhone, due decenni di rincorsa verso un’utopia hi-tech che sa sempre di déjà vu. L’ultima? Un “iPhone quasi interamente in vetro”, curvo, senza fori, senza bordi, senza più niente, se non l’ego di Cupertino riflesso su una superficie lucida. No, non è il concept di un designer sballato su Behance. È ciò che Bloomberg, tramite il solito Mark Gurman, ci spaccia come “vision futurista”, ma puzza già di vetro appannato.
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Mentre tutti si concentrano sull’intelligenza artificiale generativa, Alipay, colosso dei pagamenti digitali in Cina, tira fuori dal cilindro una trovata tanto semplice quanto micidiale: una chiamata vocale. Sì, nel 2025, tornare a parlare è la nuova frontiera della sicurezza finanziaria. La funzione è già live dentro la chat dell’app: accanto alla condivisione della posizione o l’invio di foto, ora c’è anche l’opzione “chiamata vocale”, con l’etichetta “novità”, come se fosse un ritorno vintage.

Hai presente quando pensavi che l’AI mobile fosse solo una scusa per filtri da influencer? E invece Google piazza un colpo da ko con il suo generatore di video da immagini, integrato direttamente nei nuovi smartphone Honor. Un lancio che sa di bivio tra “wow” e “mah, serviva proprio?” e che promette di trasformare ogni foto in un mini‐film da festival.

L’industria cinese dei robot umanoidi sta correndo. Ma, come spesso accade quando si corre troppo, si inciampa. O meglio, ci si dimentica qualcosa di fondamentale: l’intelligenza. E non parlo di quella strategica, geopolitica o industriale, ma proprio dell’intelligenza artificiale, quella vera, quella “end-to-end”, quella capace di far fare a un robot qualcosa senza dovergli installare ogni volta un nuovo programma come si faceva con i Nokia nel 2005.

C’è un vecchio detto nei corridoi dei dipartimenti IT più cinici: “Se qualcosa funziona in Silicon Valley, in sei mesi lo trovi a Shenzhen… con un nome diverso, ma il doppio più veloce e a metà prezzo”. Ma questa volta, forse, siamo davanti a una mutazione più interessante. Non è l’ennesimo clone: è un laboratorio con le idee chiare, la benedizione di Tencent e un’aggressività che sa di rivoluzione. StepFun, startup cinese nata già grande (perché se hai Tencent alle spalle, non sei mai davvero “early stage”), sta giocando una partita diversa: quella dell’intelligenza artificiale multimodale.

Hai presente quando ti dicono che per diventare saggio devi smettere di fare domande? Ecco, Alibaba ha preso questa perla da bar e l’ha trasformata in una strategia per rivoluzionare l’intelligenza artificiale, schiaffeggiando al contempo il modello economico delle Big Tech occidentali.
La notizia è semplice da riassumere, ma disarmante nelle implicazioni: Alibaba ha annunciato un metodo chiamato ZeroSearch, una tecnica che permette agli LLM (Large Language Models) di migliorare le proprie capacità di search senza nemmeno interrogare un motore di ricerca esterno. Sembra un paradosso zen, eppure funziona: riduzione dei costi fino al 90%, meno dipendenza dalle API commerciali tipo Google Search o Bing, e una capacità sorprendente di generare risposte pertinenti basandosi solo su simulazioni interne.

Ormai, l’idea che i modelli di linguaggio come ChatGPT possano fare qualcosa di più che chiacchierare, scrivere e fare battute è quasi normale. Ma se ti dicessi che, oggi, possiamo sfruttare questa tecnologia anche per scaricare PDF direttamente? Stai leggendo bene: ChatGPT ha recentemente introdotto la funzionalità che permette di generare e scaricare PDF. Un’innovazione che apre scenari interessanti, ma anche qualche perplessità. Perché dovremmo passare attraverso un chatbot per scaricare documenti quando esistono mille altre soluzioni? Ma andiamo con ordine.

Siamo alla soglia dell’era dei sistemi autonomi, dove gli agenti AI – quelli veri, capaci di pianificare, ragionare, usare strumenti e collaborare – dovrebbero comportarsi come stormi di droni intelligenti, organizzati, sinergici, operativi. E invece? Parlano ognuno la propria lingua. Come se tu collegassi cento dispositivi a una rete e scoprissi che uno parla Swahili, l’altro Klingon, un altro ancora codice Morse. Benvenuti nell’inferno silenzioso dell’interoperabilità mancata.

Nel teatrino ipocrita della Silicon Valley, dove tutti “vogliono migliorare il mondo” mentre si spartiscono miliardi su server raffreddati a liquido, la vera trama si svolge dietro le quinte. E non è certo una fiaba. OpenAI, la creatura postmoderna partorita da idealismo open-source e fame di profitti, sta cercando di riscrivere le regole del suo patto faustiano con Microsoft. La parola d’ordine? Potere. Quella nascosta? Marginalità. E in mezzo, come sempre, c’è il denaro.

C’erano una volta i libri. Non nel senso nostalgico da bibliofilo con il monocolo, ma nel senso sostanziale: oggetti carichi di tempo, fatica, dubbio, riscrittura. Monumenti miniaturizzati del pensiero umano, faticosamente scolpiti uno per uno da menti reali, con mani tremanti e notti insonni. Oggi? Oggi il libro è un file .mobi assemblato da un modello generativo in mezz’ora, taggato con parole chiave furbe, impacchettato in una copertina accattivante e sparato su Amazon come un detersivo in offerta.

Quest settimana, con l’aria densa di attese e avvocati pronti a caricare a testa bassa, la US Copyright Office ha rilasciato la terza parte del suo corposo rapporto sull’Intelligenza Artificiale generativa e il diritto d’autore. Un documento complesso, per certi versi ambiguo, ma che finalmente cercava di mettere dei paletti normativi in un settore che corre a una velocità che Washington fatica anche solo a immaginare. E poi, puff: stamattina Shira Perlmutter, la direttrice dell’USCO e autrice morale di quel rapporto, è stata silurata dal Presidente. Silenziosamente, senza clamore mediatico. Tempismo perfetto, se sei un romanziere distopico.

Mentre le big pharma americane si dibattono tra brevetti scaduti, prezzi insostenibili e scandali di efficacia, dalla collaborazione tra Cina e Stati Uniti emerge un farmaco orale che rischia di fare piazza pulita delle obsolete terapie oncologiche: si chiama zongertinib ed è stato appena incoronato protagonista indiscusso del trattamento del cancro al polmone NSCLC con mutazione HER2, una delle forme più ostiche da affrontare. Il tutto con un elegante studio clinico internazionale pubblicato sul New England Journal of Medicine e presentato in pompa magna al congresso dell’American Association for Cancer Research a Chicago.

Benvenuti nella fase “Cyberpunk IPO” del capitalismo: startup che esistono da dodici mesi e chiedono un miliardo di dollari di valutazione, cani robot che fanno faccende domestiche, e venture capitalist che buttano milioni come se fosse ancora il 2021. Foundation, la startup dell’ex CEO della compianta (e compromessa) Synapse, è la punta dell’iceberg: un fondatore reduce da un fallimento fintech, ora reinventa sé stesso nel settore più hype dell’era post-GPT la robotica.

Una recensione del libro di Bernardo Kastrup
👉 Why Materialism Is Baloney – Il libro su Feltrinelli
C’è qualcosa di irresistibile nei pensatori che dichiarano guerra al buon senso armati di metafore zen e rigetto per la fisica. Bernardo Kastrup è il profeta moderno dell’idealismo: una corrente filosofica tanto elegante quanto scollegata da tutto ciò che chiamiamo empiria. Il suo libro è un manifesto spiritual-pseudoscientifico dove la realtà viene destrutturata con lo zelo di un hacker post-metafisico, pronto a spiegarti che non esisti come corpo, ma solo come pensiero. E neanche tuo: sei un pensiero della “mente universale”. Un Dio? No, molto peggio: un Google mentale cosmico con un po’ di flair buddista.

Nel teatro globale della ricchezza e del potere, Bill Gates sta riscrivendo la sceneggiatura. Non con i toni sommessi di un benefattore tradizionale, ma con l’eleganza glaciale di chi ha deciso che fare il bene non basta più: ora serve fare la guerra, anche se con i guanti bianchi. La recente decisione di chiudere la Bill & Melinda Gates Foundation entro il 2045 non è solo un atto filantropico accelerato, ma un’operazione chirurgica contro il disfacimento sistemico dell’ordine liberale, con un bersaglio preciso: Donald Trump. O più precisamente, il modello politico-corporativo che Trump rappresenta.
Google ha finalmente fatto una mossa che sa di resa dei conti tra la privacy e la sicurezza, tra il fastidio e la truffa conclamata. Con l’ultimo aggiornamento di Chrome per Android, è stato introdotto un sistema di difesa basato su intelligenza artificiale on-device, capace di identificare e bloccare notifiche sospette direttamente sul telefono, prima che possano trasformarsi in furti di dati o click su software da incubo.


Stiamo per entrare in una nuova era, un’era che promette di ridare speranza. Ma, come in ogni grande epica, sono necessari coloro che abbiano il coraggio di guidare il cammino. Quello che ci aspetta potrebbe sembrare un futuro brillante, ma non arriverà senza un rischio. Oggi viviamo in un mondo dominato dalla paura, dove la maggior parte della leadership si trova in modalità di sopravvivenza, nascosta nei bunker e protetta dalle consulenze e dai fogli di calcolo, alla ricerca di sicurezza nel cuore della massa.

Non fidarti delle cose o di chi sa parlare bene. In un mondo dove anche le buone intenzioni passano prima per un term sheet che per un giuramento etico, OpenAI si ritrova di nuovo nel mirino. Dopo l’ondata di critiche pubbliche e le minacce, neanche troppo velate, da parte dei procuratori generali della California e del Delaware, l’azienda guidata da Sam Altman ha deciso di ritoccare ma non abbandonare la sua marcia verso una nuova forma societaria più redditizia e potenzialmente meno controllata: la Public Benefit Corporation (PBC).

Quando si parla di Apple e privacy, la narrazione ufficiale è sempre quella del paladino della riservatezza digitale. Una sorta di templare high-tech che combatte contro le Big Data e i loro appetiti famelici. Eppure, ogni tanto, anche il cavaliere più lucente inciampa su un sasso, e nel caso di Cupertino, il sassolino si chiama Siri. O meglio, il modo in cui Siri ha ascoltato più del dovuto. Ora, dopo anni di accuse e class action, arriva il sigillo finale: Apple ha accettato di pagare 95 milioni di dollari per mettere a tacere una brutta storia di privacy violata.

Mentre il mondo continua a cercare su Google, in Cina si sta aprendo una crepa che potrebbe diventare una voragine. Alibaba Group Holding, il colosso tech di Hangzhou che controlla tutto tranne il meteo, ha lanciato attraverso la sua app di intelligenza artificiale Quark una funzione battezzata “deep search”. E no, non è l’ennesimo restyling da due soldi: è un tentativo serio e strutturato di buttare giù il vecchio impero della ricerca online per costruirne uno nuovo, alimentato non da parole chiave, ma da ragionamenti e connessioni semantiche.

La Silicon Valley ha un nuovo problema. Si chiama Mistral Medium 3 ed è francese. Il modello, rilasciato da Mistral AI il giorno precedente, ha il chiaro intento di ribaltare le economie dell’AI enterprise, portando prestazioni da “frontier model” a una frazione del costo. In un settore dove le big tech sono abituate a monetizzare ogni token come fosse un’oncia d’oro, Mistral cala sul tavolo un asso: $0.40 per milione di token in input, $2 per milione in output. Per gli standard di Claude 3.7 o Gemini 2.0, è come vendere caviale al prezzo delle patatine.

Reddit, il sancta sanctorum del dibattito online, ha appena scoperto sulla propria pelle cosa significa essere infiltrati da una nuova razza di entità digitali: i bot AI travestiti da esseri umani. Dietro le quinte di r/changemyview, una delle community più iconiche per chi ama il confronto civile, un manipolo di ricercatori della Università di Zurigo ha orchestrato un esperimento tanto brillante quanto inquietante, dimostrando quanto facilmente si possa manipolare l’opinione pubblica online usando AI ben addestrate e una manciata di profili fittizi ben costruiti. Il risultato? Oltre 20.000 upvotes, 137 deltas e un gigantesco grattacapo etico per il team di Reddit.

Benvenuti nella nuova era dell’intelligenza artificiale, dove il dominio non si misura più in chiacchiere brillanti da chatbot ma in righe di codice, benchmark distrutti e test di intelligenza superati con arroganza computazionale. Google ha appena fatto checkmate nel campo dell’AI con Gemini 2.5 Pro, un modello che non solo umilia Claude 3.7 Sonnet in ogni metrica immaginabile, ma lo fa con la nonchalance di chi sa di aver vinto in partenza.

In un mondo in cui l’informazione viaggia a una velocità inimmaginabile, senza filtri e spesso senza troppi scrupoli, i colossi dei media stanno affrontando sfide che sembrano impossibili da vincere. Eppure, nonostante l’evoluzione drammatica dei tempi, c’è una figura che, come un moderno Icaro, sembra tentare di volare troppo vicino al sole, senza cadere. Quella figura è Reuters, e il suo presidente Paul Bascobert rappresenta l’esempio vivente di come le tradizioni aziendali possano incontrare la più recente forma di “tentazione” tecnologica: l’intelligenza artificiale generativa.

Nvidia, il gigante dei semiconduttori, si trova a navigare in acque turbolente nel tentativo di mantenere la sua presenza nel mercato cinese, valutato 50 miliardi di dollari. Le recenti restrizioni imposte dagli Stati Uniti sull’esportazione di chip avanzati hanno costretto l’azienda a ridurre le prestazioni dei suoi chip H20 destinati alla Cina, nel tentativo di conformarsi alle nuove normative e continuare a servire i suoi clienti cinesi.

Nvidia ha accolto con entusiasmo la decisione dell’amministrazione Trump di revocare la controversa “AI Diffusion Rule”, una normativa introdotta sotto l’amministrazione Biden che avrebbe limitato l’esportazione globale di chip AI avanzati. La mossa è stata salutata come una “opportunità irripetibile” per guidare la prossima rivoluzione industriale e creare posti di lavoro ben remunerati negli Stati Uniti .

Il 8 maggio 2025, il Senato degli Stati Uniti ha ospitato una delle udienze più significative dell’anno, con protagonisti i vertici di OpenAI, Microsoft, AMD e CoreWeave. L’obiettivo? Convincere i legislatori a adottare un approccio più “leggero” nella regolamentazione dell’intelligenza artificiale, evitando che norme troppo rigide possano ostacolare l’innovazione e compromettere la leadership tecnologica americana rispetto alla Cina.
Sam Altman ha partecipato a un’udienza presso la Commissione Commercio del Senato, dove ha testimoniato che imporre l’approvazione governativa prima del lancio di sistemi di intelligenza artificiale sarebbe “disastroso”.Alla domanda se l’autoregolamentazione fosse sufficiente, ha risposto: “Alcune politiche sono buone… [ma] è facile che vadano troppo oltre”.”Gli standard possono contribuire ad aumentare il tasso di innovazione, ma è importante che prima l’industria capisca quali dovrebbero essere”. VEDI notizia Washington Post

Quando George Kurtz, CEO di CrowdStrike, ha dichiarato che “l’IA appiattisce la nostra curva di assunzione”, non stava solo illustrando una strategia aziendale, ma delineando una nuova era in cui l’intelligenza artificiale ridefinisce le dinamiche occupazionali nel settore tecnologico. Con l’annuncio del licenziamento del 5% della forza lavoro—circa 500 dipendenti—l’azienda ha evidenziato come l’efficienza operativa guidata dall’IA stia diventando una giustificazione prevalente per la riduzione del personale.

Tanto gentile e tanto onesta pare è un sonetto di Dante Alighieri contenuto nel XXVI capitolo della Vita Nova.
L’idea che l’intelligenza artificiale possa un giorno “comprendere” come un essere umano è uno di quei miraggi filosofici e tecnologici che resiste al tempo, come un sogno febbricitante di Alan Turing sotto ketamina. Geoffrey Hinton, uno dei padri del deep learning, ha recentemente acceso un riflettore inquietante su questo punto, suggerendo che i modelli avanzati, come i transformer o i cosiddetti “sistemi neurosimili”, potrebbero essere sulla soglia di qualcosa che somiglia alla coscienza. O peggio: alla comprensione.

Noi di Rivista.AI abbiamo seguito l’elezione del nuovo Papa con un interesse che non attiene solo alla curiosità di sapere chi sarebbe stato il successore di Francesco – il Papa più ecumenico e “evangelico” degli ultimi decenni – ma anche alla constatazione di come la Chiesa cattolica rappresenti oggi l’unico organismo globale capace di sfidare il rigore del ritorno ai nazionalismi imperanti. Se per “ecumenico” ed “evangelico” si intende un orizzonte davvero globale, la Santa Sede resta l’unico soggetto non statuale in grado di esercitare una leadership sovranazionale, con una composizione cardinalizia sempre meno eurocentrica, grazie ai “processi avviati” da Bergoglio.

Un volto sereno, un’emozione trattenuta con grazia, la voce calda di un pastore esperto e accogliente. Ma dietro la compostezza del primo saluto, già si delinea con chiarezza la direzione del nuovo pontificato: la pace come priorità assoluta. Papa Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost, si è presentato così al mondo dalla Loggia di San Pietro. Primo Papa nordamericano nella storia della Chiesa, ma anche figura profondamente latina per via della sua lunga esperienza missionaria in Perù, Prevost ha scelto un nome che è tutto un programma: quello di Leone, il tredicesimo dei quali fu il padre della Rerum Novarum e dell’avvio della dottrina sociale della Chiesa.

La nomina di Robert Francis Prevost al soglio di Pietro, con la scelta del nome di Leone XIV, offre numerosi spunti di riflessione sul profilo e sulle possibili linee del suo Pontificato. Dalla risonanza internazionale della tradizione sociale della Chiesa, al desiderio d’unità e pace in un’Europa provata dai conflitti, fino alla specifica eredità spirituale agostiniana, emergono tre chiavi interpretative che aiutano a comprendere il significato – anche politico – di un Papa statunitense.

Vi riportiamo qui di seguito il testo integrale del primo discorso di Papa Prevost, Leone XIV, pronunciato al momento dell’affaccio da San Pietro dopo la sua elezione.

Con l’elezione di Robert Francis Prevost a Papa, la Chiesa cattolica dà il benvenuto al suo primo Pontefice statunitense. Un evento che non riguarda solo la dimensione religiosa, ma solleva riflessioni profonde sul rapporto tra la Santa Sede e gli Stati Uniti, sulle tensioni interne al cattolicesimo americano e sulle possibili ricadute di una guida “a stelle e strisce” nel complesso equilibrio geopolitico mondiale.

Dalla Rerum Novarum al nuovo Umanesimo digitale: il ritorno del Leone nel nome dei lavoratori. Con la scelta del nome Leone XIV, il neoeletto Pontefice Robert Francis Prevost si inserisce con decisione in una precisa tradizione della Chiesa cattolica: quella del coraggio pastorale, della dottrina sociale, del dialogo con il mondo moderno. Un nome che evoca un predecessore illustre: Leone XIII, autore nel 1891 dell’enciclica Rerum Novarum, il primo testo magisteriale a prendere posizione sui temi del lavoro, dei diritti dei lavoratori, del ruolo dello Stato e della giustizia sociale.

Un boato immenso ha attraversato piazza San Pietro quando, alle 19:13, si sono aperte le tende della Loggia delle Benedizioni. Davanti a oltre centomila fedeli in attesa, il cardinale protodiacono Dominique Mamberti ha pronunciato le parole attese dal mondo intero: “Annuntio vobis gaudium magnum: Habemus Papam.” Il 267esimo Papa della Chiesa cattolica è il cardinale statunitense Robert Francis Prevost, che ha scelto il nome di Leone XIV.
Con la sua elezione, la Chiesa universale volta una nuova pagina e si affida, per la prima volta nella storia, a un Pontefice nato negli Stati Uniti. Figura di grande esperienza pastorale e spirituale, Prevost raccoglie il testimone di Papa Francesco in un momento cruciale per il futuro della Chiesa e del mondo.

Nel 2025 l’Intelligenza Artificiale non è più un orizzonte lontano o un costoso giocattolo per big tech, ma una leva strategica che ridisegna la competitività nei distretti industriali, nei capannoni di provincia, nei corridoi della manifattura e nei retrobottega digitali delle PMI italiane. E non parliamo solo di chatbot o automazioni da ecommerce di quarta mano. Parliamo di veri motori di valore dove i modelli di AI – sempre più customizzati, verticalizzati e accessibili sono integrati nei processi core, diventando l’infrastruttura invisibile dell’efficienza, del decision-making e della personalizzazione.

el backstage high-tech di Washington, dove algoritmi e lobbying si incontrano a porte chiuse, qualcosa di interessante — e inquietante — sta bollendo in pentola. La U.S. Food and Drug Administration, un organismo storicamente noto per la sua lentezza pachidermica nel valutare farmaci, sta flirtando con l’AI. Non un’AI qualsiasi: OpenAI, la creatura (ora semidomata da Microsoft) che ha portato ChatGPT nel mondo, è finita in colloqui ripetuti con la FDA, secondo fonti di Wired. E no, non si tratta solo di “esplorare possibilità”: si parla già di un progetto pilota con tanto di acronimo evocativo cderGPT e il coinvolgimento diretto del primo AI officer della FDA, Jeremy Walsh.

Nel gran teatro dell’intelligenza artificiale, Baidu ha appena aggiunto una nuova scena dal sapore vagamente disneyano: un sistema per tradurre i suoni degli animali in linguaggio umano. No, non è il sequel del Dottor Dolittle, ma una domanda di brevetto pubblicata dal governo cinese che fa notizia più per il potenziale mediatico che per l’effettiva applicabilità industriale. Perché dietro ogni abbaio che diventa frase, c’è un algoritmo che promette più di quanto la scienza possa realisticamente mantenere, almeno oggi.