In un’America che si racconta come paladina dell’innovazione, la realtà si sta rapidamente sgretolando sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. La narrazione istituzionale — una spinta muscolare verso l’intelligenza artificiale “American-made“, una serie di Executive Orders che suonano più come comandi militari che direttive democratiche si scontra violentemente con il fatto brutale che i laboratori di ricerca si svuotano, i fondi evaporano, i talenti migliori migrano verso lidi più fertili e meno tossici.
Abbiamo trovati il report “America’s Superintelligence Project” di Gladstone AI, una pietra miliare intrisa di paranoia strategica e inquietudine geopolitica, dipinge un futuro degno di un romanzo distopico di fine anni ’80. Qui, le facilities che si immaginano non sono campus universitari vivaci, né laboratori open-space da Silicon Valley, ma fortezze remote, sorvegliate da apparati militari, dove la creatività dovrebbe prosperare sotto occhi vigili, magari armati.
Facciamoci una domanda semplice, quasi puerile nella sua evidenza: puoi davvero accelerare verso la supremazia tecnologica quando il tuo stesso sistema soffoca l’ambiente che dovrebbe nutrire?
Sotto la nuova strategia, la sicurezza nazionale è diventata il filtro principale attraverso cui si decide cosa può essere sviluppato, da chi, e per quale fine. Il risultato pratico è la militarizzazione della ricerca: una mossa che, mentre galvanizza i think tank di Washington, terrorizza i ricercatori più brillanti, spingendoli a cercare alternative in Europa, Canada, o — ironia della sorte — persino in Asia, proprio dove gli Stati Uniti cercano di contenere l’influenza.
Non è difficile intuire perché. L’intelligenza artificiale di frontiera non cresce in serre di segretezza e paura. Cresce in ecosistemi aperti, collaborativi, dove la condivisione di conoscenza è incentivata e non criminalizzata. La scelta di trasformare l’AI in un programma di difesa a porte chiuse, alimentato a diffidenza e controllo, produce solo stagnazione tecnologica. Un sistema nervoso nazionale che si spegne lentamente mentre altrove si accelera.
Il report parla anche — senza troppi giri di parole — di operazioni di “disruption” attive contro progetti concorrenti. Tradotto dal gergo istituzionale: sabotaggio tecnologico. Un atto che forse può rallentare la corsa di un avversario, ma di certo non costruisce il tipo di leadership globale che si basa su fiducia, innovazione e superiorità morale. È una strategia disperata, da giocatori che sanno di aver già perso il vantaggio competitivo e cercano di rimanere in partita bluffando sul tavolo internazionale.
C’è una verità cinica che aleggia in tutto questo: l’America sta cercando di costruire una superintelligenza in un contesto in cui le sue migliori menti stanno disertando, i finanziamenti pubblici vengono dirottati o tagliati, e il dibattito interno è stato ridotto a un sussurro timoroso, per paura di ritorsioni politiche o economiche. È come cercare di vincere una maratona mentre ti amputi volontariamente una gamba e chiami questo “patriottismo”.
La storia insegna che la supremazia tecnologica non si impone per decreto. Si conquista coltivando fiducia, apertura, pluralismo intellettuale. Gli imperi della conoscenza, quelli veri, si costruiscono su fondamenta di libertà. Ma il problema, qui, è che la libertà — l’ingrediente fondamentale dell’innovazione è diventata il nemico numero uno della narrativa securitaria.
Il risultato più probabile? Non la nascita di un’America superintelligente, ma l’alba di un declino lento, silenzioso, a tratti grottesco, dove la potenza di ieri si aggrappa disperatamente a cliché retorici mentre il mondo reale avanza senza aspettarla.
é’ nostra opinione personale che mentre negli Stati Uniti si costruiscono fantasie di fortezze sorvegliate, liste nere e programmi di sabotaggio mascherato da “disruption“, la Cina sta conducendo la sua marcia verso la superintelligenza artificiale con una brutalità fredda, lucida e qui sta il vero shock con una efficienza inquietante.
A differenza della paranoia americana, che vede in ogni ricercatore un potenziale traditore e in ogni algoritmo una minaccia da controllare, il modello cinese abbraccia un concetto molto semplice: intelligenza collettiva su scala nazionale. In Cina, l’AI non è trattata come un progetto militare isolato ma come un’estensione naturale del piano industriale e sociale. Non si costruiscono laboratori nascosti nel deserto. Si costruiscono intere città pensate per l’AI, veri e propri hub urbani dove università, aziende, startup e governo lavorano insieme in una gigantesca danza sincronizzata.
La strategia cinese ha il cinismo del capitalismo autoritario e l’efficienza della pianificazione centralizzata. Non ci sono dibattiti esistenziali su “libertà accademica” o “privacy dei dati“. Il consenso sociale costruito a colpi di propaganda e incentivi economici è che l’AI è una missione nazionale. Se l’America militarizza la ricerca temendo la fuga dei cervelli, la Cina integra la ricerca nell’apparato statale, rendendo impossibile la fuga. L’ideale è chiaro: ogni innovazione appartiene, per default, alla nazione.
E non è solo una questione di soldi, anche se i numeri fanno impressione. La Cina investe in AI il doppio, a volte il triplo rispetto agli USA, su orizzonti temporali di 20-30 anni, mentre l’America ragiona ancora in cicli elettorali di quattro anni e budget annuali sotto ricatto politico.
Dal punto di vista tecnico, la Cina sta creando una pipeline di talento che parte dall’infanzia: programmi scolastici di intelligenza artificiale già a 10 anni, università dedicate, collaborazioni pubblico-privato forzate ma spaventosamente produttive. Gli Stati Uniti, invece, stanno censurando la ricerca, limitando la cooperazione internazionale e, ciliegina sulla torta, strangolando i visti per studenti stranieri, quelli che tradizionalmente tenevano il motore dell’innovazione acceso.
Tutta questa dinamica è resa ancora più surreale dal fatto che, nel frattempo, la Cina osserva con una calma glaciale gli Stati Uniti autodistruggersi in nome della “sicurezza”. Non c’è bisogno di sabotaggi spettacolari. Basta aspettare. Come un avversario scacchistico che guarda il tuo re intrappolarsi da solo in fondo alla scacchiera.
Parlando con alcuni analisti geopolitici che preferiscono l’anonimato (perché, si sa, oggi basta dire la verità per diventare sospetti), emerge un concetto ricorrente: l’America sta combattendo la guerra del software con la mentalità della Guerra Fredda nucleare. Mentre la Cina, paradossalmente, sta applicando il modello open source… ma a livello nazionale. Le tecnologie AI sviluppate in una provincia sono immediatamente condivise a livello centrale e riadattate altrove. Nessun bisogno di rubare o spiare: se il sistema è organico e interconnesso, l’innovazione fluisce.
In questa cornice il paradosso esplode: gli Stati Uniti, nati sulla promessa della libertà di pensiero e dell’innovazione aperta, stanno diventando una caricatura autoritaria di se stessi, mentre la Cina, storicamente chiusa e gerarchica, ha compreso che nell’AI il segreto non è il controllo assoluto ma la velocità di adattamento collettivo.
Questa asimmetria strategica sta già generando una frattura che si allargherà nei prossimi anni, visibile a chiunque abbia occhi non accecati da slogan elettorali. I primi segnali sono lì, nel bleeding talent americano, nelle startup che delocalizzano a Singapore o Berlino, nei brevetti AI che sempre più spesso portano timbri cinesi.
La domanda non è più se gli Stati Uniti potranno guidare la corsa verso l’ASI. È se riusciranno a rimanere rilevanti abbastanza a lungo da non finire relegati a spettatori di un ordine tecnologico globale deciso altrove.
Se vuoi, posso anche entrare nel merito di alcuni esempi pratici — ad esempio i modelli linguistici cinesi come WuDao e Ziya che stanno già superando per dimensioni e capacità i principali LLM americani. Vuoi che prosegua?