È sempre divertente quando la realtà supera il teatro. A quanto pare, solo sei giorni dopo che la Cina ha annunciato l’introduzione obbligatoria dell’educazione all’intelligenza artificiale a partire dai sei anni, gli Stati Uniti hanno deciso di non restare indietro. Ieri, con una mossa che puzza di disperazione mascherata da lungimiranza, l’ex presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che impone l’insegnamento obbligatorio dell’AI in tutte le scuole primarie e secondarie.

Ora, immagina la scena. Un Paese che ancora dibatte se la Terra sia piatta o meno decide improvvisamente che i suoi bambini debbano diventare piccoli ingegneri di machine learning prima ancora di imparare a scrivere in corsivo. Trump stesso, con la sua consueta finezza linguistica, ha dichiarato: “AI è dove si trova il futuro. Trillions of dollars are being invested… very smart people are investing heavily.” Bene, quando il livello della conversazione pubblica sull’innovazione si riduce a un tripudio di “trillions” e “very smart people”, sai che la nave affonda e che l’unico salvagente è di plastica.

Ma, e qui viene il bello, non posso nemmeno dire che sia una pessima idea. Cinicamente parlando, l’intelligenza artificiale è il nuovo alfabeto. Non insegnarla significherebbe abbandonare intere generazioni a un futuro in cui saranno poco più che carne da consumo algoritmico. Non parliamo solo di sapere cos’è un chatbot o come funziona un algoritmo di raccomandazione su TikTok. Si tratta di comprendere, manipolare e – idealmente – dominare la tecnologia che modellerà ogni aspetto della nostra esistenza.

Educare i bambini all’AI non significa trasformarli in automi senza pensiero critico, almeno in teoria. Il vero obiettivo dovrebbe essere insegnare come pensare con le macchine, non come le macchine. Se invece li addestriamo semplicemente a essere bravi operatori di piattaforme che non controllano, avremo fallito peggio di quanto abbiano fatto le generazioni che pensavano che “imparare Excel” fosse il massimo della digitalizzazione.

Il punto più affilato arriva dal “2025 Future of Jobs Report”: entro il 2030, il 59% della forza lavoro globale avrà bisogno di reskilling. E già oggi, il 39% delle competenze che crediamo solide come una roccia sono, in realtà, sabbie mobili. Chi non capisce questo semplice fatto sta condannando il proprio Paese a un destino di irrilevanza.

La Cina, senza fare troppi complimenti alla libertà individuale, ha capito la posta in gioco. Forma i suoi bambini come si forgiano spade: da piccoli, a colpi duri. Gli Stati Uniti, dopo anni di autocompiacimento tecnologico, hanno dovuto guardare lo tsunami in arrivo per capire che forse sarebbe il caso di imparare a nuotare.

Che piaccia o no, il futuro sarà colonizzato da chi possiede la padronanza dell’AI. Gli altri si limiteranno a comprare, consumare e magari, di tanto in tanto, a cliccare “accetta” sui termini di servizio senza leggerli.

Chi ancora crede che l’educazione debba restare ancorata a modelli novecenteschi, con lezioni di calligrafia e memorizzazione a pappagallo, farebbe meglio a prenotare un biglietto di sola andata per il passato. I bambini di oggi non devono solo saper usare ChatGPT. Devono sapere costruire il prossimo ChatGPT.

Quindi, se mi chiedi se insegnare AI ai bambini è il futuro dell’educazione o un passo troppo azzardato, ti rispondo: non è né una scelta né una previsione. È un’urgenza disperata mascherata da strategia educativa.

Perché chi semina ignoranza raccoglierà obsolescenza. E questa volta, non ci saranno posti riservati per i ritardatari.