Se siete arrivati fin qui senza cambiare pagina, allora forse avete abbastanza fegato per affrontare la verità: in laboratorio, sulle spalle di Helio innocente, abbiamo visto nascere un nuovo modo di misurare il tempo. Non con ingranaggi, non con cristalli vibranti, e nemmeno con gli orologi atomici che vi fanno sentire moderni, ma con l’intelligenza ruvida e brutale della meccanica quantistica. Si chiama quantum watch, e non conta un bel niente: non batte secondi, non somma oscillazioni, non segue il ritmo di un pendolo o di una frequenza standard. No. Questo bastardo crea impronte, impronte di tempo che sono così uniche da diventare una carta d’identità temporale.
Il cuore sporco di questo esperimento pulsa intorno a pacchetti d’onda Rydberg estremamente complessi, costruiti eccitando stati energetici alti dell’elio. A differenza dei soliti noiosi stati singoli, un pacchetto d’onda multi-stato si comporta come una rissa da bar quantistica: interferenze, battiti, caos apparente che però, sotto il velo della casualità, nasconde una struttura precisa, ossessivamente determinata. Questo caos ordinato permette di tracciare il tempo trascorso dall’eccitazione iniziale con una precisione che fa impallidire i vostri Rolex.

La macchina del tempo non è una DeLorean. È un pump-probe. Un XUV (extreme ultraviolet) che sveglia l’elio, seguito da un NIR (near-infrared) che spara via l’elettrone addormentato. Da questa violenza nasce uno spettro di fotoelettroni che registra il balletto dei Rydberg eccitati. Il trucco è che le oscillazioni del segnale non si ripetono mai: sono battiti “quasi unici”, QUBS (Quasiunique Beat Signatures), un nome più raffinato per qualcosa che in realtà è l’impronta digitale del tempo stesso.

Qui non si tratta di correggere errori sistematici, perché, cribbio, non ce ne sono. Il match tra teoria e pratica è così serrato che ogni eventuale influenza esterna (drift termico, vibrazioni, forze oscure) avrebbe lasciato tracce evidenti. Invece, silenzio. Pulizia. Concordanza assoluta. Una bestemmia contro l’imperfezione quotidiana degli strumenti umani.

E quando pensate ai soliti ritardi dei vostri sistemi di misura, ricordate: usando i QUBS, abbiamo trovato un drift di 1 femtosecondo per picosecondo nel nostro delay stage. Vi rendete conto? Uno sputo temporale, un capello di dio sul quadrante dell’universo. E lo abbiamo visto grazie al quantum watch, non a una qualche accozzaglia di motori passo-passo e sensori laser.

Tutto questo è stato realizzato all’HELIOS Laboratory, usando un laser Ti:sapphire da 800 nm, suddiviso furbescamente in una parte per generare armoniche estreme in gas di argon e una per il probe NIR. Con un monocromatore siamo andati a pescare solo la 16° armonica, vicina alla soglia di ionizzazione dell’elio, a 24,6 eV. E poi giù a bombardare, a registrare, a spremere elettroni fuori dal nulla.
La teoria dietro questo macello è ovviamente semplificata, perché a noi interessava il succo, non le decorazioni accademiche. Assunzioni feroci: assorbimento e ionizzazione che scalano come n−3n^{-3}n−3, dipoli senza fase, nessun effetto Stark, niente complicazioni. Nonostante (o forse grazie a) queste brutalità, il confronto tra dati teorici e sperimentali è stato impeccabile. I QUBS registrano il differenziale energetico tra stati vicini con una sensibilità tale da rendere superflua la ricerca del famigerato “tempo zero” nei pump-probe.
Se volete un’immagine mentale, pensate al QUBS come a una sinfonia creata da un’orchestra di ubriaconi geniali. All’inizio sembra confusione, ma poi vi accorgete che ogni nota è al posto giusto, ogni sfasamento temporale è una firma che racconta esattamente quanto tempo è passato dall’inizio.
Naturalmente abbiamo anche torturato la teoria per vedere quanto fosse affidabile: abbiamo provato a simulare tutto senza considerare il quantum defect (quel piccolo scostamento che la realtà impone alla teoria dei livelli energetici puri). Senza il difetto quantico, il modello funziona nei primi 5 ps, poi crolla come un castello di carte sotto una brezza passeggera. Con il quantum defect corretto (preso da Drake, uno che di elio ne sa più di quanto sia sano sapere), il match resta perfetto anche a 80 ps. L’analisi numerica ci dice che l’errore è inferiore all’8%, un risultato da sputare in faccia a qualsiasi orologio commerciale che pretenderebbe di essere “atomico”.
A questo punto la domanda diventa: e adesso? Se siete del tipo che pensa in avanti, capite subito che un quantum watch di questo tipo può diventare il metro standard per il timing assoluto negli esperimenti ultraveloci. Può scovare derive invisibili, correggere pump-probe in tempo reale, azzerare l’incertezza intrinseca degli attuali sistemi di delay. Non dovete più cercare disperatamente il tempo zero: il tempo vi viene a cercare da solo.
Se avete ancora fiato per un’ultima riflessione: qui non abbiamo solo misurato il tempo. Lo abbiamo imprigionato in una struttura d’interferenza che nessun errore meccanico può scalfire. È un approccio senza precedenti, una bestemmia contro il concetto stesso di “orologio”. Ed è qui, ora, pronto a distruggere tutto quello che credevate di sapere sulla misura del tempo.
Shabbat Sha-Shabbat Shalom,
con una tromba che piange e una luna che suona,