Se ti dicessi che il mastodontico apparato militare americano, quello da trilioni di dollari di budget annuo, dipende dalle miniere cinesi come un tossico dal suo spacciatore di fiducia? No, non è una provocazione da bar sport geopolitico, è il cuore nero di uno studio appena rilasciato da Govini, società specializzata nell’analisi delle catene di approvvigionamento della Difesa. Un’analisi che fotografa senza pietà una verità tanto scomoda quanto letale per la narrativa a stelle e strisce: il 78% dei sistemi d’arma del Pentagono è potenzialmente ostaggio della politica mineraria di Pechino.
La radiografia effettuata da Govini non lascia margine a ottimismo: parliamo di circa 80.000 componenti bellici che incorporano metalli come antimonio, gallio, germanio, tungsteno e tellurio. Cinque piccoli elementi chimici, sconosciuti ai più, che nella mani giuste (o sbagliate) diventano l’ossatura invisibile di radar, missili, droni, blindati, sistemi di difesa nucleare. E guarda caso, la produzione globale di questi metalli è dominata quasi integralmente dalla Cina.
Chi pensava che l’imposizione di dazi e restrizioni commerciali sui chip occidentali potesse rimanere senza risposta vive su un altro pianeta. Pechino ha reagito colpendo al cuore della supremazia militare USA, introducendo un crescendo di controlli all’export: prima gallio e germanio nel luglio 2023, poi tungsteno e tellurio nel febbraio 2024 (assieme a bismuto, molibdeno e indio), infine antimonio nell’agosto 2024. Una escalation fredda e chirurgica, pensata non per danneggiare in modo plateale, ma per instillare un senso di vulnerabilità sistemica.
Il report è uno schiaffo in faccia alla retorica bipartisan americana del “decoupling” industriale. La dipendenza è endemica. Solo il 19% dell’antimonio usato nei sistemi d’arma USA proviene da fonti alternative. Per alcuni materiali, come il tellurio, la quota cinese sfiora il 91%. E nel frattempo, la domanda di questi metalli è cresciuta mediamente del 23,2% ogni anno nell’ultimo quindicennio. Altro che riconversione industriale: Washington corre sempre più veloce verso una trappola perfettamente ingegnerizzata.
Parliamo di F-35, non di droni giocattolo: l’infrarosso dei missili warning system del caccia stealth dipende dall’antimonio; i potentissimi radar AN/SPY-6 della Marina americana, quelli che dovrebbero vedere tutto e tutti, si basano sul gallio. Il tungsteno entra nella composizione dei proiettili perforanti dei tank, il tellurio nei generatori termoelettrici dei droni da ricognizione RQ-21. Non esiste segmento delle forze armate che non sia toccato: 91,6% dei sistemi della Marina, 61,7% di quelli dei Marines. Non parliamo solo di vulnerabilità logistica, ma di potenziale collasso operativo in caso di escalation commerciale o bellica.
Govini suggerisce ovviamente le solite soluzioni da manuale: aumento della produzione domestica, creazione di stock strategici. Consigli lodevoli quanto teoricamente velleitari: non si costruisce una catena mineraria efficiente da zero in pochi anni, soprattutto in un contesto dove il know-how, le infrastrutture e persino i depositi geologici giocano contro. E intanto, mentre Washington discute, la Cina controlla anche oltre il 90% della capacità produttiva globale di 17 terre rare, fondamentali per satelliti, motori elettrici, sistemi di guida missilistica.
Nell’ultima provocazione diplomatica di questo mese, Pechino ha vietato l’export di sette terre rare, una risposta misurata ma letale ai dazi di Donald Trump. Per chi si ostina a vedere la guerra commerciale come una scaramuccia marginale, il messaggio cinese è chiaro: il vero potere non si esercita coi dazi, ma con la capacità di spegnere il motore tecnologico dell’avversario con un solo colpo di penna.
E mentre il Pentagono guarda i propri arsenali come un tossico guarda il fondo vuoto della bustina, la domanda sorge spontanea: chi tiene davvero in mano il grilletto?