C’è un dettaglio quasi poetico in tutto questo: Motorola, marchio glorioso ma ormai relegato alle retrovie dell’immaginario tech collettivo, si sta ritagliando una seconda vita grazie a ciò che vent’anni fa sarebbe sembrata fantascienza. Non con un nuovo Razr pieghevole, non con una rivoluzione hardware, ma con chatbot a bordo. Il cavallo di Troia non ha più bisogno di ruote: ora ha l’avatar di un assistente AI.

La notizia della partnership tra Perplexity AI e Motorola non è solo una mossa commerciale, è il riflesso di un nuovo paradigma: i produttori di smartphone, costretti da anni a sgomitare in un mercato saturo e privo di vere innovazioni hardware, si stanno reinventando come veicoli di distribuzione per le intelligenze artificiali. E Motorola, che in questo panorama sembrava solo una nota a piè di pagina, diventa improvvisamente un asset strategico.

L’accordo prevede l’installazione predefinita dell’app Perplexity AI e tre mesi di abbonamento gratuito alla versione Pro per i nuovi acquirenti. Sembra un dettaglio, ma non lo è. In un’epoca in cui i motori di risposta stanno sostituendo i motori di ricerca, la vera battaglia si gioca sul numero di utenti attivi, non sulle quote di mercato dei terminali. Chi riesce a installare il proprio assistente AI direttamente nei dispositivi, conquista l’attenzione dell’utente nel momento più critico: l’interazione.

Ed ecco che Perplexity, una startup che sta cercando spazio tra i giganti, ottiene qualcosa che il denaro da solo non può sempre comprare: distribuzione. La stessa dinamica coinvolge Google, che secondo una testimonianza resa durante il processo antitrust a Washington, ha negoziato un accordo simile con Motorola per installare la sua AI Gemini. L’ironia è che queste intese, pensate per espandere l’accesso all’AI, sono ora sotto la lente del Dipartimento di Giustizia, che vuole impedire a Google di perpetuare il suo monopolio anche nell’era post-motore di ricerca.

Non è finita. Anche Microsoft Copilot e Meta si stanno infilando nello stesso corridoio, probabilmente con logiche diverse, ma con un unico obiettivo: presidiare il punto di accesso dell’utente all’informazione. E quel punto è sempre più spesso un’interfaccia conversazionale. Come dire: non importa quale telefono hai, importa chi ti risponde quando fai una domanda.

Motorola, che da anni vive in ombra tra i big del settore, si trova oggi a gestire una posizione inedita: da produttore “commodity” a hub strategico per la distribuzione dell’intelligenza artificiale personale. Forse non tutti i partner stanno pagando per questo privilegio, ma è ragionevole pensare che chi ha più da guadagnare — come Perplexity — stia scrivendo assegni veri.

In questa corsa all’infiltrazione conversazionale, gli smartphone diventano meno oggetti e più porte d’ingresso a ecosistemi cognitivi. L’hardware è solo il pretesto. Il vero prodotto è la mente dell’utente, e la sua abitudine a rivolgersi a un assistente invece che a un motore di ricerca.

E qui Motorola si prende la sua rivincita, non cercando di competere con Apple o Samsung sul piano della potenza o del design, ma offrendo il suo parco utenti come terreno di caccia alle AI più affamate. Dall’essere il telefono “che avevi perché costava meno”, a essere il telefono “che ti regala un assistente AI per tre mesi”. E chissà, magari è proprio questo il tipo di narrativa che serve oggi per far risalire un marchio nella classifica della rilevanza.

La differenza, in fondo, non la fa chi produce il chip, ma chi decide cosa fargli dire.