Humble Opionion Il 30 gennaio, Microsoft ha pubblicato su YouTube un elegante spot pubblicitario di un minuto per i suoi nuovi Surface Pro e Surface Laptop. Un video sobrio, levigato, come ci si aspetterebbe da una big tech da trilioni. Ma c’è un dettaglio che, a distanza di quasi tre mesi, è finalmente emerso: buona parte di quello spot è stato creato con intelligenza artificiale generativa. E nessuno se n’è accorto. Nessuno. Neppure i commentatori più attenti, neppure gli utenti nerd con il frame-by-frame sotto mano.
E qui scatta il twist alla “Fight Club”: il primo spot AI di Microsoft non è stato annunciato con fanfare, non è stato accompagnato da comunicati stampa in maiuscoletto. È stato lasciato lì, in pasto all’indifferenza dell’internet, come un test silenzioso, un crash test culturale per vedere se l’occhio umano è ancora in grado di distinguere il vero dal sintetico. Risposta: no.
Lo ha svelato mercoledì Jay Tan, senior design communications manager, in un post sul Microsoft Design Blog. Una confessione in stile “piccoli segreti sporchi della pubblicità”: lo spot è stato parzialmente creato usando modelli generativi per sceneggiatura, storyboard, immagini, e persino sequenze video. Con tutte le magagne tipiche del caso: allucinazioni visive, proporzioni strane, oggetti che sfidano la logica fisica. Ma tutto corretto e lucidato a mano, come un diamante sintetico tagliato da artigiani del marketing.
Non tutto è stato lasciato all’IA: i dettagli più critici, come le mani che digitano o i movimenti intricati, sono stati girati dal vivo. Per tutto il resto, quick cuts e immagini statiche hanno fatto da scudo estetico alle imperfezioni. A raccontarlo, sembra più uno sforzo titanico che un risparmio, ma il designer Brian Townsend giura di aver ridotto del 90% tempo e costi rispetto a una produzione tradizionale. Magia nera? No, solo prompt e iterazione. Migliaia di prompt, a detta del creative director Cisco McCarthy, cesellati come sculture digitali.
È interessante notare che Microsoft ha volutamente omesso di dichiarare quali scene fossero AI e quali girate. Una scelta che puzza di esperimento sociotecnologico, o più probabilmente di dissonanza narrativa: se non lo dici, il pubblico non lo nota. Lo spot, a oggi, ha raccolto poco più di 40.000 visualizzazioni, e nei commenti nessuno accenna nemmeno lontanamente all’intelligenza artificiale.
Ma adesso, sapendolo, si inizia a notare: una scritta troppo precisa per essere stata scritta a mano, un barattolo Mason grande quanto un casco da astronauta, quella patina visiva leggermente “uncanny” che fa sembrare tutto un sogno troppo lucido. Eppure, se nessuno se ne accorge finché non glielo dici, il problema è davvero dell’IA? O è nostro?
Il design chief di Microsoft, Jon Friedman, l’ha detto chiaramente in una recente intervista: l’AI non è lì per sostituire i creativi, ma per dare loro nuovi strumenti. Traduzione per chi lavora in pubblicità: il vostro lavoro non è più “creare”, ma “curare”. Editare. Ripulire le fantasie digitali da tutto ciò che urla “non reale”. Siamo tutti diventati i nuovi editor della macchina.
Il caso Surface segna un punto di svolta silenzioso. L’intelligenza artificiale ha superato il primo test pubblico senza farsi notare. E no, non è solo merito dell’AI. È anche colpa nostra, troppo abituati a consumare contenuti a una velocità tale da non distinguere nemmeno più cosa stiamo guardando.
Benvenuti nell’era della pubblicità sintetica non dichiarata. L’hai già vista. Ti è piaciuta. E non te ne sei nemmeno accorto.
Chissà cosa ne pensa AIMAZE?