Il mito dell’università americana come cassaforte inespugnabile fatta di venerate biblioteche e mura di sapere eterno si sta progressivamente smaterializzando nel fumo freddo delle svendite forzate. Harvard University, con i suoi mastodontici 53,2 miliardi di dollari di endowment, ha deciso di monetizzare circa 1 miliardo di dollari in partecipazioni in fondi di private equity, secondo quanto riferito da Bloomberg. Il deal è assistito da Jefferies, banca d’affari specializzata nei mercati secondari dei fondi illiquidi. Un’operazione che, tradotta nel linguaggio della finanza reale, suona come una mossa da “chi ha bisogno urgente di liquidità”.

La storia, se fosse narrata da un professore di economia aziendale con un passato da rocker fallito, suonerebbe più o meno così: quando anche l’istituzione accademica più dotata del pianeta inizia a far cassa vendendo asset tipicamente illiquidi, come quote in fondi di private equity, è segno che i tempi sono davvero cambiati. O meglio, stanno cambiando le priorità. E i flussi di cassa.

Il contesto non è banale. Le università americane sono sotto pressione non solo per l’aumento dei costi operativi, ma anche perché la politica federale — tra tagli ai fondi pubblici e minacce dirette alla loro esenzione fiscale — ha deciso di smettere di giocare il ruolo di mecenate silenzioso. L’amministrazione Trump ha più volte ventilato l’idea di colpire le endowment con tasse punitive, trasformando ciò che per decenni è stato un paradiso fiscale in un campo minato ideologico.

Non a caso, Harvard aveva già acceso 750 milioni di dollari in bond poche settimane fa, destinati a vaghi “scopi aziendali generali”. Tradotto: un po’ di ossigeno prima che la macchina inizi a tossire davvero. Forse per pagare stipendi, ristrutturazioni, o coprire buchi lasciati dagli investimenti meno fortunati. Non lo sapremo mai, ma il segnale è chiaro. Harvard, l’università con più soldi al mondo, sta convertendo asset di lungo termine in liquidità.

E non è sola. Anche Yale è sul mercato con un’operazione simile, supportata da Evercore. La portavoce dell’università ha fatto sapere che la vendita di fondi PE “è in preparazione da molti mesi”. Il che, in diplomazia universitaria, significa: non fateci passare per disperati, è tutto pianificato. Ma il timing fa riflettere.

Se i giganti del sapere sono costretti a monetizzare i loro investimenti più sofisticati in un contesto in cui il secondario PE è ancora scontato e illiquido, significa che il bisogno di cash supera la pazienza del rendimento a lungo termine. È la logica del “now”, il principio per cui anche l’investitore più sofisticato, se costretto, deve piegarsi alla domanda di breve termine.

Il silenzio di Harvard e Jefferies sulle richieste di commento dice tutto: meglio non aggiungere dettagli a una narrazione già abbastanza fragile. Il rischio è che la notizia si trasformi in un case study da manuale, in cui gli ex titani della gestione patrimoniale diventano oggetto di analisi da parte degli stessi studenti che un giorno potrebbero chiedere: “ma se loro non ce l’hanno fatta, chi può farcela?”

Sembra l’inizio di un trend: il mondo accademico inizia a comportarsi come un qualsiasi fondo sovrano in difficoltà. Prima si monetizzano le posizioni illiquide, poi si emettono bond, infine si tagliano i costi. La logica industriale entra anche nei santuari dell’istruzione superiore. Ma con una differenza: nessuno ammetterà mai apertamente che si tratta di un problema strutturale. Nessuno tranne forse chi analizza le cose con l’occhio cinico del capitale, quello che sa che quando vendi PE in secondario, è perché il tuo orizzonte si è accorciato drasticamente.

Se vuoi leggere l’articolo originale di Bloomberg, eccolo: Harvard said to plan $1 billion PE stake sale.