Nel mondo dei colossi, dove ogni movimento strategico ha il peso di un’onda sismica, Apple sta tracciando una nuova rotta: addio (quasi) definitivo alla Cina come fabbrica globale degli iPhone destinati al mercato statunitense. Secondo il Financial Times, la Mela di Cupertino ha intenzione di spostare tutta la produzione degli iPhone venduti negli USA in India entro il 2026, con una prima milestone già nel 2025. Tradotto: oltre 60 milioni di pezzi l’anno, made in Bharat. Il tutto in risposta al deterioramento delle relazioni commerciali tra Washington e Pechino, in un gioco di tariffe, esenzioni temporanee e tensioni da guerra fredda versione 5G.
La mossa di Apple è figlia diretta del rischio di una tariffa del 125% sui prodotti cinesi ventilata da Donald Trump, oggi redivivo sul palcoscenico politico americano. Una misura che avrebbe reso l’importazione di iPhone prodotti in Cina un suicidio economico. Per ora, i telefoni cinesi sono colpiti da un dazio separato del 20%, mentre quelli fabbricati in India godono di una tariffa dimezzata, al 10%, fino a luglio. E se l’accordo commerciale con Nuova Delhi andrà in porto, il vantaggio fiscale potrebbe diventare permanente.
Dietro la narrativa ufficiale dell’“indipendenza strategica”, si cela però un mix letale di fragilità industriali e instabilità geopolitica. Apple, che per due decenni ha ballato un valzer perfetto con il Partito Comunista Cinese, ha cominciato a tremare già con i lockdown brutali di Xi Jinping, che hanno letteralmente chiuso le fabbriche Foxconn nel pieno della produzione. Da allora è partita la lenta e costosa fuga verso alternative che, spoiler: non sono né semplici né garantite.
L’India, scelta per capacità produttiva in crescita e per motivi geopolitici, è tutt’altro che una passeggiata. La collaborazione con Tata Electronics e il colosso taiwanese Foxconn si è rivelata complicata, tra infrastrutture ancora immature e tensioni latenti tra India e Cina. Se Pechino è la fabbrica del mondo, Nuova Delhi sta ancora imparando a diventarlo. E Apple ha già imparato sulla propria pelle che “replicare la Cina fuori dalla Cina” non è un copia-incolla da supply chain.
Ciò non toglie che il piano sia in moto. Raddoppiare la produzione in India nel giro di due anni richiederà un investimento massiccio, un’esecuzione chirurgica e soprattutto la capacità di assorbire una forza lavoro non ancora abituata ai ritmi robotici della manifattura cinese. Ma Tim Cook non ha alternative. La Cina, da alleato industriale, è diventata una mina vagante in un conflitto a bassa intensità con gli Stati Uniti, e restare ancorati a quel modello produttivo sarebbe letale, soprattutto se Trump dovesse effettivamente tornare alla Casa Bianca con il suo bazooka daziario.
Apple, in fondo, non è solo un brand o una tech company. È un indicatore anticipatore della geopolitica industriale globale. Se sposta i suoi iPhone in India, il mondo – da Samsung a Tesla, da Intel a Microsoft – seguirà. E la Cina dovrà iniziare a chiedersi se non stia davvero rischiando di perdere il monopolio manifatturiero con cui ha ipotecato il XXI secolo.