C’è un nuovo animale da ufficio che si aggira tra le torri di vetro a Honk Kong e nei coworking patinati di New York: non suda, non si prende pause caffè al Bar dei Daini, e non ha bisogno di un badge. È l’agente AI, il collega digitale che non ti chiede mai “hai cinque minuti?”. E Microsoft, col fiuto da monopolista rinato, ha già annusato la preda. Il suo ultimo Work Trend Index, pompato da una survey planetaria da 31.000 anime e un oceano di tracce digitali raccolte dai suoi sistemi, dipinge un paesaggio lavorativo dove il confine tra umano e digitale non è solo sfocato: è strategicamente superato.
Il caso di Hong Kong fa scuola. In quella giungla verticale, metà della forza lavoro sta già automatizzando i propri flussi con agenti AI. Non stiamo parlando di chat bot da customer service o schedine Excel animate. Si tratta di veri e propri compagni di scrivania sintetici, capaci di gestire progetti, filtrare mail tossiche, suggerire soluzioni e, udite udite, lasciarti finalmente il tempo per pensare. Il 76% dei dirigenti locali è pronto a espandere questa forza lavoro invisibile nei prossimi 12-18 mesi. Non perché siano dei futurologi illuminati, ma perché non hanno alternative.
Il dato più crudo, e insieme più poetico, del report lo trovi incastrato tra una slide e l’altra come una lamentela non detta: l’86% dei lavoratori dichiara di non avere abbastanza tempo o energia per svolgere i propri compiti. E come biasimarli? Microsoft calcola che un impiegato medio venga interrotto 275 volte al giorno. Ogni due minuti, una mail, una chat, un meeting. Nessuna meraviglia se poi ci sentiamo meno produttivi di un modem 56k.
La risposta? Una riorganizzazione ibrida, non più centrata solo sulle persone, ma su coppie simbiotiche uomo-macchina. Non è solo l’automazione dei task a bassa intensità cognitiva. È una nuova grammatica del lavoro. Se prima dicevamo “scrivo email”, presto diremo “gestisco agenti”. Non è un cambio lessicale, è una rivoluzione epistemica: il nostro output sarà il risultato di una relazione, non di un’azione. Come dire, il cervello diventa direttore d’orchestra, mentre l’AI suona l’oboe, il fagotto e anche il triangolo.
Microsoft, ovviamente, non è una ONG. Sta spingendo fortissimo su strumenti come M365 Copilot, nella speranza di replicare il colpo gobbo degli anni ‘90 con Word ed Excel. Il messaggio è chiaro: vuoi rimanere competitivo? Allora devi creare, addestrare e orchestrare i tuoi agenti, come se fossero nuovi team a basso costo e alto rendimento.
Eppure, c’è un limite strutturale ed etico che nessun algoritmo può superare. Daniel Susskind, economista e voce lucida in mezzo al coro techno-ottimista, lo dice senza giri di parole: per certe decisioni ad alto rischio, serve il giudizio umano. Non solo per motivi morali, ma anche perché la fiducia non si compra su Azure. La negoziazione, la leadership, il carisma da corridoio sono ancora moneta umana.
Il modello “frontier firm” si sviluppa in tre fasi: prima l’agente come assistente, poi come collega, infine come manager con supervisione umana. È un percorso che promette efficienza, ma impone anche una nuova forma di alfabetizzazione lavorativa. Sapere usare bene un AI non sarà diverso da sapere leggere e scrivere nel primo Novecento. Con la differenza che stavolta la penna ha un motore neurale.
E chi non si adatta? Finirà come i dinosauri: affascinanti, ma estinti.