Nel mondo tech, da anni ci sciroppiamo il mantra evangelico del “lavorare in modo più intelligente, non più duro”. Poi arrivano due dropout di Columbia University, giovanissimi e con in tasca 5,3 milioni di dollari, che decidono di fare un piccolo upgrade al concetto: “imbrogliamo su tutto”. Non è una provocazione, è il claim letterale del manifesto online di Cluely. Una startup che promette un assistente AI “individuabile quanto un ninja in una notte senza luna”, capace di leggerti lo schermo, ascoltare l’audio e suggerirti in tempo reale le risposte più intelligenti da sparare in un meeting, una call di vendita o anche in un’intervista di lavoro.
Sì, esatto. Il futuro è qui: ed è un Cyrano de Bergerac digitale pronto a suggerirti cosa dire mentre cerchi di vendere fuffa a un cliente, ottenere un lavoro per cui non sei preparato o sedurre una persona che non conosci neanche. È la Silicon Valley distillata in forma pura: se non riesci a essere brillante, fingi di esserlo. Ma fallo in modo smart, con l’intelligenza artificiale a coprirti le spalle.

Roy Lee, cofondatore di Cluely, ha un curriculum che suona più come una serie Netflix che come una biografia LinkedIn. Il suo precedente progetto, Interview Coder, era già un software da illusionismo tecnico: ti aiutava a superare test tecnici in colloqui di lavoro usando AI di nascosto. L’ha fatto, l’ha documentato pubblicamente, ha ottenuto uno stage in Amazon, ed è stato sospeso da Columbia. Nessun rimorso, solo pivot: lui e il suo socio Neel Shamugan hanno lasciato gli studi e ora puntano a rivoluzionare tutto. Di nuovo.
Nel loro spot virale da sei cifre, Lee usa Cluely per fingersi un ingegnere senior di 30 anni durante un appuntamento. Una scena tra il tragicomico e il cyber-surreale: un display in realtà aumentata gli suggerisce in tempo reale cosa dire, cosa mostrare, e come reagire. Quando la partner sospetta qualcosa, Cluely interviene come un burattinaio disperato e genera al volo uno script per salvare la situazione. Un colpo di teatro degno di Black Mirror, confezionato con il gusto di chi sa che l’AI è già un meme vivente.
Il problema? Quando provi Cluely davvero, la magia evapora come un deepfake su una linea 3G.
Problemi audio, latenza siderale, necessità di digitare prompt come un pianista nervoso durante le riunioni, e tempi di risposta che ti fanno sembrare confuso, non geniale. E qui si apre la faglia: l’AI non può essere un’arma segreta se per usarla devi farti sgamare, interrompere tutti e sembrare un idiota perché la tua voce fa eco.
Cluely è una prova di concetto, non un prodotto. L’ambizione è chiarissima, ma l’esecuzione è quella che separa la fantascienza dalla roba che funziona davvero. La narrazione del “cheating” come leva evolutiva si scontra con la dura realtà delle riunioni Zoom dove se il microfono gracchia, non sei un innovatore: sei solo quello fastidioso che tutti vogliono silenziare.
C’è poi la questione etica, quell’elefante nella stanza che molti startupper fingono di non vedere. Cluely consiglia di ottenere il consenso delle persone prima di registrare o utilizzare AI nelle call, per evitare violazioni legali. E quindi: se devi dire che stai usando Cluely, che razza di “imbroglio” è? È come presentarsi a poker dicendo “ho un asso nella manica, ve lo dico prima”.
Cluely, con tutta la sua arroganza da “AI maximalism”, è l’ennesimo esempio di una tendenza pericolosa: quella che confonde l’idea di efficienza con l’idea di autenticità. Il problema non è solo tecnologico, ma umano. Perché se l’AI diventa la stampella per ogni conversazione, ogni decisione e ogni relazione, stiamo solo creando una generazione di utenti incapaci di gestire l’incertezza, la spontaneità e il rischio. In pratica: ci stiamo rendendo tutti meno umani, nel nome di una finta genialità digitale.
Lee insiste che “l’AI è la leva per realizzare la nostra vera umanità”. Ma intanto, chi usa Cluely oggi, spesso finisce per lavorare di più per sembrare peggiore. Una distopia di seconda categoria dove il trucco è evidente, l’illusione si rompe appena parli, e ti ritrovi a desiderare la cosa più semplice del mondo: smettere di fingere e fare il lavoro da solo.
Perché forse, alla fine, non serve un Cyrano digitale. Serve solo un po’ più di onestà. E un microfono che non gracchi.