Nel panorama odierno, dove ogni slide da venture capitalist grida all’arrivo dell’agente AI “autonomo”, “proattivo” e “rivoluzionario”, la verità tecnica resta un po’ meno scintillante: la maggior parte degli agenti oggi sono poco più che sequenze di prompt orchestrate goffamente. Finalmente però, Anthropic mette a disposizione un vademecum ingegneristico degno di nota per chi vuole davvero costruire agenti AI operativi nel mondo reale. E no, non stiamo parlando dell’ennesima toy app con GPT-4 che prenota un tavolo.

Il documento è denso di insight pratici, ma soprattutto ha il pregio raro di distillare buonsenso architetturale applicato all’intelligenza artificiale generativa. Sì, parliamo di design pattern per LLM evoluti, non di fuffa da keynote. Il punto di partenza è chiaro: gli agenti AI efficaci si costruiscono attorno a blocchi funzionali come retrieval, memoria, strumenti e logica di orchestrazione, il tutto supervisionato da modelli linguistici centrali.

La logica della composizione modulare emerge come principio chiave. Ogni agente è un patchwork di prompt chain ben calibrati, routing intelligente e task paralleli che non collassano appena qualcosa esce dallo script. L’approccio più sensato, secondo Anthropic, è mantenere la semplicità fino a quando la complessità non diventa inevitabile. In altre parole: costruisci come se fossi su un Raspberry Pi, anche se sotto hai una GPU A100.

Il vero colpo di genio del modello? La separazione tra orchestratore e lavoratori (workers). L’idea non è nuova, ma il modo in cui viene implementata qui lo è: un LLM principale si comporta come un project manager algoritmico, assegnando sotto-task a modelli più semplici, ognuno specializzato in un segmento operativo. Il tutto viene costantemente validato da un evaluator LLM che misura la qualità e fornisce feedback — un approccio iterativo che, francamente, ricorda più una startup ben gestita che una pipeline NLP.

Tra le chicche tecniche, spicca il concetto di augmented LLM: modelli linguistici dotati di accesso a strumenti esterni (tool use), capacità di memoria persistente e funzioni di recupero documentale. È la ricetta per passare da un bot che “chiacchiera” a un agente che “agisce”.

Altro snodo cruciale: quando usare un agente e quando no. Se stai risolvendo un task definito, meglio un workflow classico: prevedibile, replicabile, e soprattutto debug-friendly. Ma se il problema è nebuloso, cambia nel tempo o richiede decisioni a runtime, allora l’agente è la via da percorrere.

Un punto spesso ignorato da chi costruisce questi sistemi è che l’iterazione batte la progettazione monolitica. Non si costruisce l’agente perfetto al primo colpo. Si parte con un MVP (davvero minimo), lo si fa sbagliare, e si iterano le versioni come si farebbe con un prodotto software. Chi insiste a costruire castelli di sabbia architetturali prima ancora di validare un task reale non ha capito la partita.

Il futuro degli agenti AI non è nel prossimo LLM con 2 trilioni di parametri, ma nella capacità di combinarli in modo sensato, modulare, valutabile. Un agente utile è come un buon team: c’è chi prende decisioni, chi esegue, chi valuta e chi migliora il processo. Il resto è fuffa da demo su Twitter.

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