Quando la giustizia statunitense mette una Big Tech all’angolo, il gioco si fa interessante. E questa volta il palco è dominato da Google, accusata formalmente di monopolizzare il mercato della ricerca online, con un processo che potrebbe portare a un evento storico: lo spin-off forzato del browser Chrome. A spingere sull’acceleratore non è solo il Dipartimento di Giustizia, ma anche OpenAI, che osserva la situazione con un certo appetito predatorio.

Nick Turley, il responsabile di ChatGPT, lo ha detto chiaro e tondo in aula: “Sì, saremmo interessati a comprarlo, come molte altre parti”. È la prima volta che OpenAI mostra pubblicamente la sua ambizione non solo di essere presente nel browser più usato al mondo, ma addirittura di metterci le mani sopra. Il contesto? Un’audizione in cui si decide il futuro della struttura industriale del search online. Il giudice Amit Mehta dovrà stabilire entro agosto quali pratiche commerciali Google dovrà abbandonare e, soprattutto, se dovrà separarsi dal suo gioiellino da miliardi: Chrome.

Al momento, ChatGPT ha una semplice estensione su Chrome, un plug-in tra tanti. Ma come ha spiegato Turley, se OpenAI avesse il pieno controllo del browser, “potremmo offrire un’esperienza davvero incredibile”. Il futuro, insomma, non è più “mobile first” ma “AI first”, e Chrome potrebbe diventare il gateway ideale per quel tipo di esperienza. OpenAI vuole riscrivere il concetto di accesso al web, spostandolo da un’interfaccia passiva a una interattiva e predittiva, governata dall’intelligenza artificiale.

Ma dietro questa corsa all’integrazione, c’è una guerra molto più sporca: quella della distribuzione. Apple ha già stretto accordi con OpenAI per portare ChatGPT sugli iPhone. Ma sul fronte Android, dove Google regna con pugno di ferro, le porte restano chiuse. Turley ha ammesso che OpenAI non è riuscita ad arrivare a nulla di concreto con Samsung, perché “Google può spendere molto più di noi”. Non è mancata nemmeno una nota amara: “Temo seriamente che saremo esclusi”, ha detto, riferendosi al controllo che Google esercita su browser e app store.

Ed è proprio questo il cuore della battaglia: il controllo dei punti di accesso. Chi controlla il browser, controlla la distribuzione dei contenuti, le ricerche, la pubblicità, la scoperta di nuovi strumenti digitali. E oggi, quegli accessi sono strettamente presidiati da colossi come Google. L’idea che la concorrenza possa emergere in un mercato dove il primo motore di ricerca paga miliardi per essere default su ogni dispositivo è, nella migliore delle ipotesi, una barzelletta.

La proposta del Dipartimento di Giustizia è radicale ma non folle: spezzare Google, costringerla a vendere Chrome, obbligarla a concedere in licenza i suoi dati di ricerca ai concorrenti e interrompere i contratti esclusivi. È lo scenario che Big G teme come la peste, e che paragona a un’automutilazione tecnologica che danneggerebbe non solo l’azienda, ma l’intera leadership statunitense nel settore.

Eppure, come ci insegna la storia, i colossi possono cadere. È già successo con AT&T negli anni ’80. Se Mehta decidesse per il divorzio forzato tra Google e Chrome, sarebbe un precedente clamoroso. E stavolta, nel banchetto dei resti, OpenAI è tra i primi a preparare le posate.