Tutti abbiamo un prezzo: come il giornalismo si vende all’intelligenza artificiale

Era solo questione di tempo prima che anche The Washington Post, ultimo baluardo di una certa pretesa indipendenza editoriale, si accomodasse al tavolo dei partner strategici di OpenAI. Non parliamo di una fusione, e nemmeno di una svendita a saldo, ma del più raffinato degli scambi: dati in cambio di esposizione. Più precisamente, contenuti giornalistici in cambio di visibilità all’interno dell’ecosistema ChatGPT, oggi utilizzato da oltre 500 milioni di persone ogni settimana. E, va detto, sempre più dominante nel flusso globale dell’informazione digitale.

La notizia è ufficiale e arriva direttamente da un comunicato stampa del Washington Post che, con tono misuratamente entusiasta, racconta come questa partnership renderà “le notizie di alta qualità più accessibili in ChatGPT”. Nella pratica, gli articoli del Post selezionati, riassunti, contestualizzati verranno presentati all’utente di ChatGPT in risposta a domande pertinenti, con tanto di link all’articolo originale per chi volesse approfondire. Tutto molto ordinato, tutto molto “responsabile”. Ma sotto questa patina di modernità e servizio all’utente si cela una dinamica ben più cinica: quella del giornalismo che, consapevole del suo declino commerciale, si appoggia al cavallo di Troia dell’IA per restare rilevante, e soprattutto monetizzabile.

Non è un caso isolato. Il Washington Post si unisce a un club sempre più affollato di editori che hanno stretto patti con OpenAI. Parliamo di colossi come News Corp, Axel Springer, Condé Nast, The Associated Press, Financial Times, Hearst, Vox Media. Tutti quanti, in un modo o nell’altro, hanno deciso che l’accesso diretto ai propri archivi editoriali può essere una risorsa preziosa per un’intelligenza artificiale generativa che si nutre di testi, contesti e contenuti. Ma attenzione: non si tratta solo di visibilità. Questi accordi hanno, in filigrana, il linguaggio del licensing. Di fatto, il giornalismo sta diventando un dataset.

Certo, i portavoce delle due aziende parlano d’altro. Peter Elkins-Williams del Washington Post, responsabile delle partnership globali, preferisce raccontarla come una missione di servizio pubblico: “Assicurare che gli utenti di ChatGPT abbiano il nostro giornalismo a portata di mano è parte del nostro impegno a offrire accesso dove, come e quando il nostro pubblico lo desidera”. Lo stesso Varun Shetty di OpenAI non si trattiene dal sottolineare la portata epocale del momento: mezzo miliardo di utenti settimanali, un pubblico potenziale che nessun media tradizionale può più permettersi di ignorare.

E allora ecco il vero cuore della questione. Non è ChatGPT che ha bisogno del Washington Post. È il contrario. Come ogni piattaforma egemone, OpenAI sta diventando la nuova infrastruttura della conoscenza popolare. Non si legge più per informarsi. Si chiede a un chatbot. E il chatbot risponde con contenuti preconfezionati, filtrati, riassunti, spesso diluiti. Per rimanere nella partita, i media devono “farsi embed”, diventare citabili, modulari, digeribili da un’intelligenza artificiale che, nella pratica, sta ridisegnando la logica dell’autorevolezza.

C’è una sottile ironia in tutto questo. Il Washington Post, un tempo simbolo del giornalismo d’inchiesta che fece tremare Nixon, oggi si trasforma in un fornitore di snippet per un assistente digitale che si nutre di tutto e attribuisce poco. Certo, il link rimane, l’attribuzione pure, ma quanto durerà prima che anche questi dettagli diventino opzionali, personalizzabili, marginali?

Non è una discesa agli inferi, ma una mutazione strutturale. L’industria dei contenuti ha capito che non può più permettersi il lusso dell’indipendenza distributiva. I lettori non esistono più: esistono gli utenti. E gli utenti, come sa bene OpenAI, vogliono risposte, non articoli. Vogliono sintesi, non contesto. E soprattutto, vogliono tutto, subito, gratis.

Il titolo dell’articolo del Washington Post avrebbe potuto essere molto più onesto: “Abbiamo finalmente deciso quanto valiamo”. Ma forse suona meglio così: “Accesso facilitato alle notizie di qualità”. Tanto, alla fine, l’algoritmo deciderà per tutti noi se cliccare o meno.