Jensen Huang ha capito che la rivoluzione dell’intelligenza artificiale non si fa solo con chip e CUDA cores, ma anche con una cosa molto più vecchia e banale: l’elettricità. In un raro cambio di look via la giacca di pelle nera, dentro l’abito blu e cravatta d’ordinanza il CEO di Nvidia si è presentato a Tokyo per incontrare il Primo Ministro giapponese Shigeru Ishiba. Il motivo? Convincere il Sol Levante che per dominare l’AI serve una nuova infrastruttura energetica. Tradotto: più centrali, più data center, più corrente. Magari anche qualche reattore nucleare in più, se il trauma di Fukushima lo permette.

Secondo Huang, il Giappone è perfettamente posizionato per l’era dell’intelligenza artificiale: ha la robotica nel sangue, una manifattura industriale che è un benchmark globale e una popolazione pronta (anzi, costretta) ad abbracciare automazione e AI, vista la curva demografica da thriller distopico. Ma c’è un problema sostanziale: produrre intelligenza artificiale richiede una quantità di energia paragonabile solo al sogno bagnato di un elettricista con manie di grandezza. E il Giappone, privo di risorse naturali, si trova stretto in una morsa tra la riluttanza a riattivare le centrali nucleari e la dipendenza da combustibili fossili importati a caro prezzo.

Non è solo un problema locale. L’Agenzia Internazionale dell’Energia prevede che i data center e i loro voraci sistemi di raffreddamento faranno esplodere la domanda elettrica a ritmi che non si vedevano da decenni. Ed è proprio questa domanda a cui Huang sta cercando di dare una risposta politica, prima che diventi un problema economico.

Nel frattempo, mentre cerca energia a Tokyo, Huang è reduce da un altro viaggio più spinoso: Pechino. Una visita che si è svolta sotto le ombre di Washington, che ha appena deciso di vietare a Nvidia la vendita dei suoi chip AI H20 in Cina. Una mossa che sa tanto di guerra fredda tecnologica, e che colpisce duramente un prodotto pensato appositamente per rispettare i precedenti limiti imposti dagli Stati Uniti. Il risultato? Una svalutazione da 5,5 miliardi di dollari sui conti Nvidia e un Huang costretto a giocare su più scacchiere, tra alleati esitanti e nemici vigili.

Non bastasse, una commissione bipartisan della Camera statunitense ha chiesto a Nvidia di fornire dettagli sulle sue vendite in Asia, sospettando che i chip americani possano aver contribuito ai successi dell’AI cinese, come nel caso della start-up DeepSeek. Una paranoia bipartisan che conferma quanto la partita dell’intelligenza artificiale non si giochi solo nei laboratori, ma nelle stanze dei governi, nelle alleanze geopolitiche, e persino negli armadi elettrici.

Come se non bastasse il caos internazionale, il Giappone si trova ora a valutare un investimento da 44 miliardi di dollari in un progetto di gas naturale liquefatto in Alaska. Un tentativo per addolcire le trattative con gli Stati Uniti, e magari garantirsi qualche megawatt extra per alimentare la futura Tokyo Valley dell’AI.

L’impressione è che Huang non stia solo vendendo chip, ma cercando di riscrivere l’intero ecosistema che li renderà utili. In fondo, anche il chip più potente non serve a nulla se manca la presa di corrente. Nvidia ha capito che per restare al centro della scena tecnologica, non basta progettare il futuro: bisogna anche assicurarsi che ci sia abbastanza corrente per accenderlo.