E rieccoci. Come un sequel che nessuno ha chiesto ma che tutti sospettavano sarebbe arrivato, Google torna al centro del mirino del Dipartimento di Giustizia USA. Il tema? Sempre lo stesso: abuso di posizione dominante. Cambia solo il contesto, perché se una volta si parlava di motori di ricerca, oggi il campo di battaglia è l’intelligenza artificiale generativa, dove il colosso di Mountain View starebbe già ripetendo lo stesso schema da libro di testo.
Durante l’ultima udienza del processo antitrust in corso, l’accusa è stata chiara: Google sta cercando di replicare nell’AI la stessa architettura monopolistica che ha consolidato nella search. L’avvocato del governo ha infatti puntato il dito contro un nuovo accordo commerciale stretto da Google con Samsung, grazie al quale l’app del chatbot Gemini sarà installata di default su tutti i nuovi dispositivi dell’azienda coreana. Déjà vu? Esattamente. Lo stesso tipo di accordo, con Apple in primis, era stato cruciale per cementare la leadership incontrastata del motore di ricerca di Google, come rilevato nella sentenza dello scorso agosto che lo ha bollato come monopolio illegale.
Ma il problema non è solo l’accordo con Samsung. Sempre secondo il governo, Google avrebbe anche usato i dati raccolti dal suo motore di ricerca per addestrare i modelli AI di Gemini, cosa che di per sé potrebbe rappresentare un vantaggio competitivo difficile da replicare per chi non possiede un archivio sterminato di query umane degli ultimi 20 anni. Un dirigente di OpenAI sarà chiamato a testimoniare proprio per evidenziare come questa asimmetria distributiva penalizzi chi non ha un motore di ricerca in tasca.
Tuttavia, qui comincia a scricchiolare la narrativa. Perché se è vero che Google ha messo le mani avanti con la distribuzione dell’app di Gemini, la realtà è che non se la fila nessuno. I dati di traffico parlano chiaro: nel primo trimestre del 2025, il sito ChatGPT.com ha raccolto 12,3 miliardi di visite, mentre quello di Gemini si è fermato sotto il miliardo. Questo vuol dire che, nonostante la potenza di fuoco commerciale e infrastrutturale, Google è ancora distante anni luce dalla popolarità del suo rivale più diretto. È come se avesse comprato tutti i megafoni del mondo, ma nessuno li volesse ascoltare.
E se vogliamo dirla tutta, anche gli sviluppatori – quelli che contano davvero in un ecosistema AI sembrano meno che entusiasti di Gemini. L’accoglienza nella comunità è stata tiepida, per non dire diffidente. Quindi, mentre il Dipartimento di Giustizia si prepara a combattere l’ennesima guerra contro un mostro a più teste, la domanda vera è: Google è davvero il monopolista da battere nel campo dell’AI, o è solo un colosso che sta provando a rincorrere chi è già molto più avanti?
In fondo, l’accordo con Samsung potrebbe non spostare l’ago della bilancia per anni, vista la lentezza con cui si aggiorna il parco smartphone globale. E, ironicamente, se Gemini dovesse finalmente guadagnare terreno, sarebbe forse nonostante questi accordi, non grazie a essi.
Ma il contesto resta importante: mentre Google cerca di arginare la fuga in avanti di OpenAI e Microsoft nel campo dell’AI, si trova anche a dover difendere il suo core business, la ricerca, da un nemico molto più subdolo. Perché se oggi un utente chiede a ChatGPT invece che a Google, non si tratta più di una semplice alternativa. È una minaccia esistenziale.