Quando sei il re indiscusso del motore di ricerca globale e ti ritrovi sul banco degli imputati per monopolio illegale, non combatti per la tua innocenza, combatti per mantenere il potere il più possibile intatto. Questa settimana, il processo antitrust contro Google si è trasformato in un teatrino squisitamente illuminante su come funziona davvero il capitalismo delle Big Tech. E no, non è un complotto: è tutto documentato, verbalizzato e testimoniato davanti a un giudice federale.
Peter Fitzgerald, vice-presidente delle partnership di Google, ha confermato davanti al tribunale che da gennaio Google paga Samsung una cifra mensile definita “enorme” per preinstallare l’app Gemini AI su tutti i dispositivi Samsung di nuova generazione, come se fosse il nuovo Bixby, ma con molta meno personalità e molti più dati da succhiare. E no, non è uno scherzo. La stessa Samsung, che da anni tenta di affermare il proprio assistente vocale, ha sostanzialmente gettato la spugna per un assegno a sei (forse sette) zeri.
Ecco il punto: questa partnership tra Google e Samsung non è un incidente di percorso. È l’ennesimo tassello in un mosaico molto più vasto, già criticato nel processo antitrust per accordi simili con Apple, Mozilla e altri produttori. E ora, dopo la dichiarazione formale del giudice Amit Mehta che ha riconosciuto Google come monopolista illegale, si sta solo decidendo quanto dovrà pagare per continuare a esserlo, anche se un po’ più di soppiatto.
Google, con l’aplomb di chi ha già pagato per restare al potere, prova a raddrizzare il tiro retroattivamente: secondo The Information, solo la scorsa settimana ha iniziato a inviare lettere ai produttori per “modificare” gli accordi esistenti. Curioso tempismo, vero? E ancora più curioso è che nei documenti interni presentati in aula, Google stava pianificando contratti ancora più restrittivi: Gemini, Search e Chrome, tutti preinstallati, tutti in bella vista. Un trittico sacro per il controllo dell’esperienza utente.
Nel frattempo, Fitzgerald ha anche confermato che Samsung era corteggiata da Microsoft, Perplexity e altri, ma alla fine, l’offerta di Google era semplicemente troppo… generosa. E qui entra in gioco la logica da monopolista: non vinci perché sei il migliore, vinci perché puoi permetterti di perdere soldi nell’immediato per continuare a dominare nel lungo periodo.
Il DOJ, comprensibilmente infastidito, ha proposto una serie di soluzioni che vanno ben oltre il simbolico buffetto sulla guancia: niente più accordi per default, obbligo di vendita di Chrome, e – soprattutto – la licenza forzata dei dati che alimentano Google Search. Una vera e propria eutanasia del vantaggio competitivo. Ma Google, ovviamente, si oppone: vuole cedere solo i suoi accordi di default placement, non il motore vero e proprio del suo impero.
Siamo nel cuore di una partita di scacchi ad alta velocità, dove ogni mossa vale miliardi. Ma il punto centrale resta sempre lo stesso: può un’azienda che ha costruito un impero sulla preinstallazione, la raccolta dati e la manipolazione della visibilità online, sopravvivere in un mondo in cui le regole dell’antitrust vengono davvero applicate?
Spoiler: probabilmente sì. Basta pagare abbastanza.