“Un velo di tristezza ci pervade per la morte del caro papa Francesco, ma dal mondo sale un inno di ringraziamento a Dio per il dono di questo successore di Pietro, che ci ha guidati a riscoprire una Chiesa impegnata nel Vangelo della gioia e della misericordia, in cammino tra le strade del mondo e attenta al grido dell’umanità”. Accogliendo l’invito del Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, le Chiese in Italia pregano per Papa Francesco, morto lunedì 21 aprile alle 7.35.
Nel raffinato teatro dell’elezione papale, la massima più sussurrata nei corridoi vaticani è anche la più crudele: “Chi entra papa in conclave ne esce cardinale.” Il conclave non è un talk show spirituale, non è un talent ecclesiale. È, almeno in teoria, l’ultimo baluardo di un potere che si pretende sacro, ispirato direttamente dallo Spirito Santo. In pratica? È un ibrido di diplomazia, tradizione, lobbying clericale e un pizzico di marketing morale.
Il funerale di Papa Francesco, morto a 88 anni, non solo chiude un’epoca quella di un pontefice che ha tentato di riformare la Chiesa a colpi di misericordia, piedi sporchi e periferie ma apre la porta alla più spietata partita a scacchi spirituale del pianeta. Chi siederà sul trono di Pietro? Nonostante la narrazione da santuario, c’è già la fila, e il campo è ben affollato. Rivista.AI lo ha chiesto a Divine Algorythm.

Partiamo da chi ha le credenziali giuste. La regola è semplice: ogni maschio cattolico battezzato può essere eletto papa, ma dal 1378 si sceglie solo tra cardinali. E per vincere servono i due terzi dei voti di quelli sotto gli 80 anni. Il twist? Quasi tutti i votanti sono stati nominati proprio da Francesco. Tradotto: chiunque sia troppo apertamente in disaccordo col defunto papa rischia di bruciarsi prima ancora di accendere l’incenso.

Tra i favoriti troviamo Cardinal Peter Erdo, 72 anni, ungherese, freddo come una messa feriale in febbraio. Due volte a capo del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, gode della stima del blocco europeo, il più numeroso. È abile, ha contatti con l’Africa e ha tenuto la scena nei sinodi sulla famiglia. Ma potrebbe sembrare più un gestore che un pastore, più un funzionario che un profeta.

Poi c’è il teutonico Reinhard Marx, 71 anni, una specie di anti-Ratzinger, amico personale di Bergoglio, ma troppo tedesco per il gusto conservatore del collegio. Ha guidato i tentativi di riforma della Chiesa tedesca con il contestato “percorso sinodale”, dove si è osato parlare apertamente di celibato, omosessualità e ordinazione femminile. I tradizionalisti lo vedono come l’apocalisse con la tonaca. Si è persino offerto di dimettersi per la questione abusi, ma Francesco gli ha detto di rimanere. Un atto di fedeltà? O una prova di debolezza?

Sul fronte nordamericano, Marc Ouellet, 80 anni, è un nome pesante, ex capo della Congregazione dei Vescovi, l’ufficio che decide chi diventa cosa nel mondo ecclesiastico. È il classico “conservatore con volto umano”. Amico di Benedetto XVI, ha difeso il celibato e ha respinto l’ordinazione femminile, ma ha anche promosso pastori “con odore di pecora”, per dirla alla Francesco. Il problema? L’età, e qualche vecchio dossier vaticano che lo rende meno spendibile.

Il vero eminenza grigia, però, è Pietro Parolin, 70 anni, segretario di Stato dal 2014. Parla fluentemente tutte le lingue del potere, dalla diplomazia alla finanza. Ma è anche il cardinale del disastro immobiliare di Londra, una vicenda che ha bruciato milioni di euro della Santa Sede in investimenti opachi. Nulla di illegale, forse, ma il fumo di Satana passa spesso dalle stanze del patrimonio.

Occhio però a chi arriva dalle Americhe. L’outsider per eccellenza è Robert Prevost, 69 anni, nato a Chicago ma con un cuore che batte per il Sudamerica. È stato missionario e vescovo in Perù, poi chiamato da Francesco a Roma per guidare la potentissima Congregazione dei Vescovi. È americano, ma non lo è davvero. Potrebbe piacere ai progressisti e non spaventare troppo i tradizionalisti. Giovane, ma non troppo. Ignoto al grande pubblico, ma ben visto tra i porporati. Un compromesso? Forse. Ma la Chiesa ama i compromessi vestiti di porpora.
Parlando di Africa, c’è Robert Sarah, 79 anni, guineano. Un tempo speranza nera (in tutti i sensi) dei conservatori, ora è un nome bruciacchiato. Si è scontrato frontalmente con Francesco, ha pubblicato un libro con Benedetto XVI difendendo il celibato mentre il papa rifletteva su sposare preti nell’Amazzonia. Un colpo basso, che ha lasciato cicatrici e ferito la sua credibilità tra i moderati. Per i nostalgici è un sogno, per gli altri un incubo liturgico.

Dall’Asia arriva Luis Antonio Tagle, 67 anni, filippino, ex star carismatica dell’episcopato asiatico. Bergoglio lo ha voluto a Roma, gli ha dato il dicastero per l’Evangelizzazione e lo ha proposto come volto del nuovo cattolicesimo globale. È commovente, piange in pubblico, cita la nonna cinese. Ma proprio per questo è troppo “pop”. I cardinali sono diffidenti verso chi buca lo schermo. Inoltre, è giovane. Un papato troppo lungo spaventa chi cerca stabilità a breve termine.

E infine, la sorpresa italiana: Matteo Zuppi, 69 anni, arcivescovo di Bologna, presidente della CEI, ma soprattutto uomo di fiducia di Sant’Egidio, la lobby cristiano-progressista più potente di Roma. È stato inviato personale di Francesco per negoziare pace in Ucraina. Ha scritto l’introduzione all’edizione italiana di Building a Bridge del gesuita pro-LGBT James Martin. È un “prete di strada”, ma con pedigree vaticano. Potrebbe essere il volto italiano di un papato alla Francesco, ma più diplomatico, più soft. Forse troppo.
Il conclave che si apre ora non sarà una passerella. Sarà una guerra fredda ecclesiastica. L’ombra di Francesco incombe su ogni candidatura, e nessuno vorrà apparire come l’anti-Bergoglio. Ma neppure come il suo clone. Chi vincerà? Chi saprà essere abbastanza simile da rassicurare, ma abbastanza diverso da convincere. Il prossimo papa non sarà il più santo. Sarà il più accettabile.