Col termine “Zhuazhou” (抓周)si indica una cerimonia tradizionale cinese che si tiene il giorno del primo compleanno per celebrare la crescita dei bimbi e augurargli tanta prosperità. Da quest’autunno al compimento del 6 anno, i bambini di Pechino inizieranno il loro percorso scolastico con qualcosa di più del solito abbecedario: l’intelligenza artificiale. E no, non si tratta di semplici giochini educativi per stimolare la mente, ma di un curriculum vero e proprio che comprende l’uso di chatbot, le basi dell’etica dell’AI, e l’impatto sociale delle tecnologie emergenti. In pratica, mentre in Europa ci si scanna ancora sul divieto dei cellulari in classe, la Cina sta insegnando a bambini delle elementari come interagire consapevolmente con ChatGPT.

Ora, in superficie potrebbe sembrare una provocazione alla Black Mirror, ma scavando appena sotto si rivela una strategia lucida, persino brutale, ma necessaria. In un mondo dove il 39% delle skill lavorative attuali è destinato all’obsolescenza entro il 2030, e dove il 59% della forza lavoro globale avrà bisogno di reskilling secondo il Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum, è semplicemente suicida continuare a educare con paradigmi del secolo scorso.

La Cina non sta semplicemente anticipando i tempi: li sta riscrivendo. Invece di limitarsi a sfornare piccoli consumatori digitali, sta tentando di formare una generazione di progettisti, pensatori computazionali, e innovatori. L’obiettivo non è solo imparare a usare l’AI, ma capire cosa sia, come funziona, e cosa può significare per il futuro della società. Questo, per quanto cinico possa sembrare, è l’unico modo realistico per rimanere competitivi in un mondo dove la curva del cambiamento tecnologico è più ripida di quella di apprendimento scolastico tradizionale.

Naturalmente, ci sono rischi. Non stiamo parlando solo di sfide cognitive o pedagogiche, ma di implicazioni etiche profonde. Stiamo preparando i bambini a pensare in termini algoritmici, a ragionare in logiche probabilistiche, a decodificare comportamenti umani mediati da macchine. E mentre questo può sembrare il sogno umido di ogni policymaker illuminato, c’è un prezzo da pagare: il rischio che il pensiero critico venga sostituito dal pensiero computazionale, o che l’immaginazione venga compressa dalla razionalità dell’output.

Eppure, come Technologist e genitore (o almeno come cittadino pensante per il momento), non posso che ammettere che questo approccio, per quanto radicale, è quello giusto. No, non per ogni ora scolastica. No, non per sostituire il disegno, la musica o lo sport. Ma sì, per inserire l’AI come materia trasversale, capace di insegnare logica, etica e problem solving a partire dalla tenera età. Perché quando l’AI sarà ovunque, dai giochi ai frigoriferi, dai compiti scolastici alle diagnosi mediche, non sarà più una “materia” da insegnare: sarà il tessuto stesso della realtà.

Chi lavora in education o nella pubblica amministrazione farebbe bene a guardare a questa mossa cinese non con lo snobismo dell’occidente stanco, ma con la lucidità di chi sa che la vera battaglia per la supremazia tecnologica si gioca già oggi, nei banchi di scuola. E per chi storce il naso, magari temendo che i bambini diventino automi incapaci di sognare, rispondo: peggio sarebbe renderli analfabeti digitali in un mondo governato dagli algoritmi.

La domanda quindi non è più “se” dobbiamo insegnare l’AI ai bambini, ma “come” farlo senza perdere l’umano. E mentre discutiamo, la Cina agisce. Come sempre.

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