Nel silenzio rotto solo dal suono dei tasti e dai grafici di produttività, un nuovo paradigma si consolida nel cuore pulsante della corporate economy globale: l’intelligenza artificiale non è più una tecnologia da laboratorio, è una manodopera da trincea. E soprattutto, è una manodopera che non sciopera, non chiede ferie, non si ammala e non organizza sindacati. Da PayPal a EY, passando per Meta, Pinterest e l’intera Silicon Valley, si assiste a una mutazione darwiniana dove il lavoratore umano è una specie in via d’estinzione, rimpiazzata da algoritmi affamati di dati e GPU a 5 cifre.
PayPal ha recentemente annunciato tagli importanti alla forza lavoro, una mossa giustificata con la necessità di “efficienza operativa”. Traduzione per chi ancora crede nella semantica aziendale: le macchine sono più economiche. Non è solo questione di costi, ma di controllo. Un bot non si lamenta se lo sposti da un task all’altro, non chiede aumenti, e soprattutto non posta su LinkedIn. Questo trend è diventato talmente palese che perfino EY, la seriosa big four della consulenza, ha cominciato a usare l’AI per rimpiazzare personale nei processi contabili e nei servizi a basso valore aggiunto. Lo chiamano “upskilling”, ma somiglia di più a una raffinata operazione di outsourcing algoritmico.
Nel frattempo Meta, che non è certo nota per la sobrietà nelle spese, ha dovuto bussare alle porte di Microsoft, Amazon e altri vecchi compari per finanziare lo sviluppo del suo LLaMA, un modello linguistico open source con velleità da concorrente di ChatGPT. La mossa ha fatto drizzare più di qualche sopracciglio, perché segnala una verità che molti vogliono ignorare: l’intelligenza artificiale, in particolare quella generativa, non è a buon mercato. I costi infrastrutturali stanno esplodendo, tra GPU NVIDIA vendute al prezzo del tartufo bianco e data center che consumano quanto una città di provincia. Ma se perfino Meta ha bisogno di colletta, allora la bolla dell’AI è meno eterea di quanto vogliano farci credere.
E poi c’è Pinterest, la startup che voleva essere social prima che Instagram decidesse di mangiarsi tutto. Per rilanciare le sue entrate pubblicitarie ha flirtato con l’idea di un’acquisizione da centinaia di milioni, puntando su strumenti AI per la targettizzazione degli utenti. Il ragionamento è sempre lo stesso: se non puoi battere Meta sul campo dell’attenzione, almeno prova a imitarne le strategie più predatorie. Ma nel frattempo, nessuno si chiede che tipo di contenuto sarà prodotto quando tutti i creatori saranno rimpiazzati da modelli generativi addestrati sugli stessi contenuti degli umani che hanno appena licenziato.
Siamo di fronte a un paradosso perfettamente coerente con il cinismo del capitalismo cognitivo: la corsa all’adozione dell’AI come sostituto della manodopera è giustificata con promesse di efficienza, ma dietro le quinte si consuma una guerra tra colossi per spartirsi l’unico petrolio rimasto, l’attenzione umana e i dati che la alimentano. La narrativa pubblica è quella dell’innovazione, ma l’effetto tangibile è la disoccupazione tecnologica mascherata da “ridisegno organizzativo”.
Chi vince? Per ora chi possiede le GPU, chi controlla i data center, chi ha un monopolio sulla scala. Chi perde? Chiunque pensava che l’AI sarebbe stata una forza liberatoria. Il futuro del lavoro non sarà fatto di creatività umana aumentata dalla macchina, ma di macchine che riproducono (più o meno malamente) la creatività di chi è stato appena messo alla porta.
Benvenuti nell’era dell’AI come forza lavoro. Dove il progresso tecnologico non libera, ma sostituisce. E lo fa con un sorriso sintetico e una pipeline ottimizzata in Python.
Trovate la lista qui sotto dei layoff anninciati.