L’ultima trovata della Commissione Europea si chiama AI Continent Action Plan e, se la retorica dovesse corrispondere alla realtà, ci troveremmo già nel pieno della seconda rivoluzione industriale digitale, made in Europe. Henna Virkkunen, eurodeputata finlandese e voce tra le più entusiaste, ha dichiarato che “L’intelligenza artificiale è il cuore della competitività, della sicurezza e della sovranità tecnologica dell’Europa.” Fa effetto, certo. Ma l’entusiasmo istituzionale è spesso inversamente proporzionale all’esecuzione pratica delle politiche UE.

Il piano, presentato il 9 aprile 2025, mira a cavalcare l’ondata AI per trasformare un’Unione lenta, divisa e normativamente labirintica in un “leader globale” nel settore. L’ambizione è tanta, ma la realtà è, come sempre, più intricata. La Commissione tenta di poggiare il suo piano su cinque pilastri: infrastrutture computazionali, accesso a dati di qualità, sviluppo di algoritmi e adozione strategica, formazione di talenti e guarda un po’ semplificazione normativa.

Sembra un piano ben confezionato, di quelli da presentare in PowerPoint ai convegni internazionali. E in effetti lo è. Nel PDF rilasciato (una sintesi ben curata tra comunicato stampa e factsheet) si elencano obiettivi, roadmap e visual futuristici in perfetto stile “Bruxelles”. Ma mentre l’EuroHPC promette supercomputer per tutti, e l’AI Act si propone come il primo quadro legale chiaro per l’IA nel mondo, i veri problemi restano sotto traccia: governance inefficiente, lentezza nell’attuazione, e un tessuto imprenditoriale dove meno del 15% delle PMI ha integrato l’IA nei propri processi.

Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: si parla di cloud, data space e sostenibilità delle infrastrutture digitali, ma ci si dimentica che gran parte dell’Europa è ancora invischiata in progetti pilota, sandbox normativi e uno stuolo di task force che producono rapporti trimestrali senza impatto operativo.

Il punto cruciale è la “semplificazione normativa”, che suona quasi come una barzelletta in un’Unione nota per l’ipertrofia regolamentare. Viene annunciato un AI Act Service Desk operativo dall’estate 2025 per supportare imprese e cittadini. Ma viene da chiedersi: quanti sportelli, quanti helpdesk, quante linee guida ci vogliono prima che una startup europea possa semplicemente lavorare senza affogare in PDF, bandi, moduli e vincoli transnazionali?

Nonostante le buone intenzioni, la sfida più grande resta geopolitica e culturale. Mentre gli USA e la Cina viaggiano su modelli centralizzati e predatori tra monopolizzazione dei chip e militarizzazione dell’AI – l’Europa risponde con un approccio concertativo, spesso inefficace, dove ogni stato membro insegue la propria agenda. L’Italia parla di AI per la PA, la Germania sogna data space industriali, la Francia punta sull’AI militare, la Polonia sull’agritech. Ma una vera “visione comune”? Ancora latitante.

C’è un’ambizione dichiarata: triplicare la capacità di elaborazione dati nei prossimi 5-7 anni, grazie a investimenti privati e green computing. Ma finché il 70% dei cloud provider europei non riuscirà a essere competitivo neanche su scala continentale, e la dipendenza da chip asiatici resterà strutturale, tutto questo profuma di sogno in power suit.

La Commissione promette investimenti massicci in ricerca e innovazione per “rendere più verdi” le infrastrutture computazionali, tradotto: far funzionare i server AI europei senza che ogni query richieda l’equivalente energetico di un piccolo stato balcanico. Si parla di infrastrutture cloud sostenibili, ma anche di facilitare l’investimento privato, perché evidentemente il pubblico ha capito che da solo non ce la può fare. Tripletta ambiziosa: triplicare la capacità di elaborazione dati dell’UE in un orizzonte di 5-7 anni.

A sentire questi progetti, ci si domanda in quale universo parallelo si trovino le risorse per inseguire questi obiettivi, mentre già adesso le aziende europee si vedono costrette a usare infrastrutture AWS, Google Cloud o Azure, tutte rigorosamente made in USA. L’Europa parla di “autonomia strategica” ma poi carica i propri modelli linguistici su GPU ospitate in Oregon. È l’eterna contraddizione di un continente che fa etica dei dati senza avere i mezzi per allenare un LLM domestico.

In parallelo, l’iniziativa punta anche a rafforzare la “capacità di elaborazione sicura” dei provider cloud europei. Tradotto, vogliono evitare che i dati sensibili dei cittadini e delle aziende finiscano nel tritacarne normativo del Cloud Act americano. Peccato che, al momento, i provider europei non solo manchino di scala, ma siano anche lontani anni luce dai colossi d’oltreoceano in termini di efficienza e tecnologia.

L’iniziativa AI Continent va letta anche come una risposta disperata alla legge dell’economia computazionale globale: chi controlla la potenza di calcolo, detta le regole del gioco. L’AI è diventata il nuovo petrolio, ma mentre gli altri trivellano e raffinano, l’Europa è ancora alla fase dei dibattiti regolatori. La realpolitik del chip, della GPU, del megawatt e del TCO non perdona chi arriva tardi.

Dietro le buone intenzioni e i soliti acronimi europeisti, resta la solita domanda: riuscirà l’Europa a costruire un’infrastruttura AI sovrana e sostenibile prima che il treno parta del tutto? O rimarremo spettatori regolatori di un match già deciso altrove?

L’AI Continent Action Plan è una bella vetrina, piena di specchi e fumo, con qualche sostanza ma molte più ambiguità. Serve a mostrare che “anche l’Europa c’è”, che non siamo solo regolatori ma anche innovatori. Ma senza un cambio di passo nella governance, nella velocità di implementazione e nell’uniformità normativa, il rischio è quello di restare l’unico continente dove si parla di AI più di quanto la si faccia.

L’ultima domanda, quella davvero da un milione di dollari, è semplice: l’Unione Europea è capace di essere strategicamente unita su un tema così critico, o stiamo solo inseguendo un sogno tecnologico mentre gli altri si giocano il futuro?

Source AI continent Plan / AI Continent – new cloud and AI development act