Nella silenziosa ma serrata corsa globale per la supremazia nell’aeronautica militare del futuro, la Cina ha deciso di rompere il silenzio con una manovra coreografata degna del miglior teatro geopolitico. Il 26 dicembre, giorno del compleanno di Mao Zedong un dettaglio che nessun regista avrebbe potuto ignorare le immagini di un nuovo caccia cinese hanno cominciato a circolare online. Un’uscita pubblica non casuale, che punta a mandare un messaggio preciso: la Cina è qui, pronta, e sta accelerando.

Le foto e i video mostrano un velivolo sperimentale, battezzato J-36, in volo sopra Chengdu, affiancato da un J-20, il cavallo di battaglia di quinta generazione del Dragone. Ma è la configurazione a tre motori ad aver scatenato i dibattiti più accesi. Tre motori in un caccia non si vedono dai tempi in cui il termine “stealth” era ancora un neologismo e non una buzzword usata da ogni startup di droni agricoli.

Se guardiamo con l’occhio da CTO smaliziato e non da entusiasta da salone dell’aeronautica, il cuore della sesta generazione non è tanto la velocità o la furtività che ormai sono commodity – quanto l’integrazione massiva con sistemi autonomi, sensor fusion e, soprattutto, crew-uncrewed teaming.

E qui entra in gioco l’AI non come buzzword, ma come architettura tattica: stiamo parlando di caccia che non combattono più da soli, ma come hub digitali in un ecosistema di droni armati, gestiti in tempo reale da algoritmi di supporto decisionale. L’intelligenza artificiale non è un accessorio: è il copilota, il comandante di squadriglia, il navigatore e in alcuni casi… il boia.

Nel caso dell’F-47, il concetto di Collaborative Combat Aircraft ruota interamente su questa logica, e anche i movimenti cinesi sul J-36 e J-50 lasciano intuire uno sviluppo simile, anche se meno esplicitato.

Questa non è una guerra di lamiera e postbruciatori, ma una guerra di algoritmi, e chi la ignora sta leggendo con le lenti del passato.

Gli analisti si sono divisi su cosa possa significare questa scelta: un segno di forza propulsiva inedita oppure un rattoppo tecnico per sopperire alla mancanza di motori adeguati, dal momento che il WS-15, l’orgoglio motoristico made in China, sembra ancora arrancare nel confronto con i propulsori occidentali.

La configurazione senza coda verticale e con presa d’aria diverterless evidenzia invece il chiaro intento stealth: invisibilità al radar, sacrificando manovrabilità e controllo. Un cambio di paradigma che sembra abbracciare una dottrina d’impiego più da missile guidato con pilota, che da tradizionale dogfight. Se fosse un concept car, sarebbe una monovolume futuristica che fa lo 0-100 in 2 secondi ma che sterza come un camion dell’UPS.

A livello strategico, la mossa cinese ha un tempismo chirurgico. Mentre gli Stati Uniti assegnano la produzione dell’F-47 a Boeing – ponendo fine a mesi di voci di tagli al programma per motivi di costo Pechino mostra al mondo che sta già facendo volare il suo “concorrente”. Un’azione che, più che un test tecnico, sembra una prova muscolare in piena guerra fredda 2.0, ma questa volta a base di AI, droni e targeting algoritmico.

Nel frattempo, l’Occidente non sta a guardare. Il progetto anglo-nippo-italiano GCAP (Global Combat Air Programme) e quello franco-tedesco-spagnolo FCAS (Future Combat Air System) cercano di ritagliarsi il loro spazio in una gara dove la parola “interoperabilità” ha preso il posto della “sovranità tecnologica”.

Ma la vera chiave non è più solo il design del velivolo. I nuovi caccia saranno sistemi neurali volanti, dove l’uomo non sarà più al centro, ma parte di una rete. L’F-47 americano, secondo indiscrezioni, sarà il nodo principale di uno sciame di droni da combattimento CCA (Collaborative Combat Aircraft), vere e proprie armi semi-autonome da schierare in avanscoperta o come scudo attivo.

La Cina, seppur più riservata su questo fronte, ha già mostrato nel 2022 rendering in CGI di un J-20 a due posti che comanda stormi di droni. E il sospetto è che il J-36 con la sua cabina che potrebbe ospitare due piloti – sia progettato per gestire un esercito volante di UAV, una sorta di operatore drone armato da 10 km d’altezza.

Il paradosso è evidente: da un lato si cerca la supremazia con piattaforme complesse, costose e tecnologicamente avanzate, dall’altro si va verso una miniaturizzazione letale della guerra aerea. Il peso del J-36, stimato fino a 54 tonnellate, lo rende più vicino a un bombardiere che a un caccia. Un’anomalia che fa storcere il naso a chi guarda all’evoluzione dei conflitti moderni, dove la rapidità e la flessibilità contano più della potenza bruta.

Yoon Suk-joon, analista coreano, la dice senza troppi giri di parole: costruire un aereo più grosso del J-20 è un passo indietro. E non solo per ragioni ingegneristiche. In un mondo dove missili ipersonici, droni kamikaze e radar quantistici fanno da sfondo alle nuove dottrine, investire in piattaforme pesanti rischia di essere un investimento dal ROI incerto.

La dottrina cinese sembrerebbe ormai improntata sull’attacco preventivo ad alta velocità, lanciato come una freccia supersonica verso le basi USA a Guam o in Giappone. Una strategia che bypassa la guerra aerea tradizionale, perché sa che in uno scontro ravvicinato, con IA e armi a guida autonoma, nessuno vincerebbe.

E qui sta il nodo più cinico della questione: la sesta generazione non sarà solo un salto tecnologico, ma concettuale. Addio ai Top Gun, ai duelli nei cieli e ai piloti-eroi. Benvenuti nell’era in cui chi comanda è l’algoritmo e il pilota è solo un backup umano. Se sopravvive abbastanza da premere il primo pulsante.