L’epopea del “torniamo a produrre in casa” è diventata il nuovo sport nazionale dei talk show e delle newsletter economiche di chi non ha mai visto una catena di montaggio dal vivo, ma sa tutto del reshoring grazie a un TED Talk. L’idea che possiamo riportare a casa centinaia di miliardi di produzione industriale è la nuova fiaba per adulti – solo che invece di finire con “e vissero felici e contenti”, finisce con debito pubblico, delocalizzazioni 2.0 e disoccupazione camuffata da “upskilling”.
Perché sì, magari ce lo siamo dimenticati, ma l’USA è un paese con il 4% di disoccupazione ufficiale, che ha deciso che gli immigrati sono un problema invece che una risorsa (soprattutto quando servono per fare i lavori che nessun vuole più fare). Un paese che ha una manifattura che in molte aree è ancora ferma al tornio e alla pressa, ma che dovrebbe competere con le smart factory tedesche e cinesi e le supply chain asiatiche integrate su ERP di quarta generazione.

Ora, ditemi voi: dove troviamo in 18 mesi gli ingegneri, i tecnici, i programmatori e gli operai specializzati per alimentare un piano industriale che prevede l’automazione spinta, l’AI industriale e la lean production? In che database li avete trovati questi giovani pronti, formati e disponibili a lavorare su turni in un impianto a 28°C con tuta e DPI, anziché davanti a un laptop in un coworking a bere kombucha?
Ma poi la chicca: l’illusione che basti aprire una fabbrica come se fosse un franchising di bubble tea. Come se non servissero anni per costruire le supply chain, allineare i fornitori, testare i componenti, trovare spazi, ottenere permessi, formare il personale, ottimizzare la logistica. E parliamo di un paese in cui un permesso edilizio per un capannone ti arriva forse dopo un paio di Natali e tre responsabili SUAP che si sono succeduti in Comune.
Intanto ci si dimentica che la manifattura moderna non è fatta di bulloni e chiavi inglesi. È software embedded, è sensoristica, è analisi predittiva dei dati, è sincronizzazione just-in-time. Richiede capitale umano formato, capitale industriale aggiornato, e capitale finanziario paziente. Tre cose che oggi mancano drammaticamente.
Certo, possiamo parlare di reshoring, se intendiamo dire che rientrano alcune produzioni strategiche in settori selezionati, magari con filiere corte e controllate. Ma se qualcuno pensa che possiamo replicare l’apparato produttivo cinese in Brianza, nel Varesotto o nella Val di Sangro… allora sì, serve la fatina dei denti, ma anche la lampada di Aladino e un paio di incantesimi da Hogwarts.

Nel nostro caso, ottenere ciò che si desidera potrebbe voler dire una crisi industriale travestita da sovranismo produttivo, finanziata a debito, sostenuta da un personale che non esiste e con infrastrutture che si fermano a ogni autovelox.
Prima di sognare una nuova Detroit nel cuore del nulla, scegliete voi l’area bisognerebbe almeno imparare a distinguere un piano CAPEX da un balsamo per capelli. Così, giusto per rispetto dei soldi spesi dai nostri genitori per farci studiare.