Quando un colosso come Intel comincia a smettere di respirare innovazione e inizia a respirare burocrazia, è solo questione di tempo prima che qualcuno decida di tagliare via la carne morta. Ed ecco che Lip-Bu Tan, fresco di nomina a CEO, non perde tempo: prende in mano la scure e comincia a “piattire” l’organigramma come un vecchio ingegnere stanco delle chiacchiere in sala riunioni.

Nel giro di poche settimane dalla sua nomina, Tan ha mandato segnali forti. E non stiamo parlando di generici “intenti strategici” alla Harvard Business Review, ma di movimenti concreti. Via le strutture a cipolla, dentro un nuovo assetto in cui i pesi massimi del silicio gruppi storici come quello dei chip per data center, AI e personal computing risponderanno direttamente a lui. Un ritorno all’essenza: meno PowerPoint, più ingegneria.

È un gesto che ha il sapore di chi ha capito che Intel non è più l’oracolo di Mountain View, ma un pachiderma impantanato in anni di ritardi produttivi, scelte strategiche ondivaghe e una leadership incapace di reagire all’ascesa di Nvidia, la nuova stella del firmamento AI. E non serve un’IA per capire che il tempo delle mezze misure è finito.

Nel suo memo interno, Tan è diretto: “Voglio sporcarmi le mani con i team di ingegneria e prodotto”. Finalmente qualcuno che non ha paura di guardare sotto il cofano. E nel farlo, ridefinisce anche il ruolo di Michelle Johnston Holthaus rimasta nel radar ma con funzioni da ricalibrare. Il che, tradotto, vuol dire: “non sei fuori, ma adesso guido io”.

A raccogliere la torcia della visione tecnologica c’è Sachin Katti, nuovo CTO e capo della strategia AI. Non solo un interno in ascesa, ma anche professore a Stanford, dove il futuro lo si scrive e non lo si insegue. A lui spetterà il compito di tirare fuori qualcosa di credibile dal marasma che Intel ha chiamato “strategia AI” negli ultimi anni. Ricordate Falcon Shores? Ecco, dimenticatelo. Katti dovrà ripartire da zero. O quasi.

Il cambio di passo non si ferma alla tecnologia. Intel cerca anche un nuovo capo per le relazioni governative, che risponderà direttamente a Tan. L’importanza di questa figura, in un contesto geopolitico dove le guerre si combattono a colpi di dazi, chip e sussidi industriali, è tutt’altro che secondaria. Bruce Andrews ha lasciato dopo le elezioni USA, e la sedia ora scotta più che mai, specialmente con il ritorno di Trump all’orizzonte e la Cina sempre in agguato — proprio lì dove Tan ha una rete di investimenti non trascurabile.

Il nuovo corso è chiaro: via i salotti, dentro il laboratorio. Tre veterani tecnici Rob Bruckner, Mike Hurley e Lisa Pearce adesso riportano direttamente al CEO. Finalmente la competenza tecnica torna al vertice, non più nascosta sotto strati di middle management che parlano solo in acronimi.

Tan non fa sconti nella sua diagnosi: Intel è soffocata dalla sua stessa complessità organizzativa. Decisioni lente, idee bloccate nei silos, cultura dell’innovazione ridotta a una parola da keynote. Quello che dice è la cruda verità che in tanti evitavano di pronunciare per non turbare gli azionisti: l’azienda non funziona. E se un’azienda non funziona, non serve cambiare i PowerPoint. Serve cambiare le persone e i meccanismi.

Il destino di Intel ora è un cantiere aperto. Ma per la prima volta da anni, qualcuno sembra aver deciso di prendere in mano la cazzuola, non il telecomando della conference call.