La narrazione dell’onnipotente Google che domina il web inizia a sgretolarsi a colpi di sentenze. Un tribunale federale della Virginia ha inferto un colpo chirurgico al cuore dell’impero pubblicitario di Mountain View, stabilendo che la compagnia ha violato la legge antitrust “acquisendo e mantenendo volontariamente un potere monopolistico” nel settore delle tecnologie pubblicitarie. Non si tratta di una semplice multa o di una reprimenda retorica: è l’inizio di una potenziale disgregazione strutturale del modello di business che ha reso Google il gigante che conosciamo oggi.
Il paradosso è lampante: Google è stata accusata di controllare con pugno di ferro sia il lato della domanda che quello dell’offerta del mercato pubblicitario online. Gli inserzionisti comprano attraverso strumenti di Google. Gli editori vendono tramite piattaforme di Google. E a fare da intermediario… sempre Google. Un ecosistema chiuso e autarchico che ha fatto impallidire qualsiasi sogno di concorrenza.
Secondo il governo USA, è un sistema costruito con cura per massimizzare i margini, non per ottimizzare l’efficienza del mercato. Aumentare i costi per gli inserzionisti, ridurre i guadagni degli editori, soffocare la concorrenza: una tripletta perfetta. Ma ora che un tribunale ha formalmente riconosciuto questa dinamica come monopolistica, il castello rischia davvero di crollare. Se l’altro processo, quello sul monopolio nella ricerca, è stato il primo avviso, questa decisione potrebbe essere la miccia di una deflagrazione molto più vasta.
La difesa di Google, affidata alle parole della vicepresidente Lee-Anne Mulholland, suona più come una dichiarazione di guerra che come una spiegazione. Ha infatti annunciato l’intenzione di ricorrere in appello, vantandosi del fatto che metà della causa è stata vinta, perché le acquisizioni e gli strumenti non “danneggiano la concorrenza”. È la solita linea: gli editori scelgono Google, nessuno li costringe. Peccato che, nel mercato pubblicitario online, scegliere Google non sia tanto un’opzione quanto una necessità. E come ogni monopolio che si rispetti, Google ha creato dipendenza, non fedeltà.
Chi mastica di tecnologia e mercati digitali capisce bene la gravità di una simile condanna. Se confermata, Google potrebbe essere costretta a dividere o cedere parte delle sue attività, separando i suoi strumenti per gli inserzionisti da quelli per gli editori. Un colpo mortale alla sua integrazione verticale, che è il vero carburante del suo dominio. Sarebbe l’equivalente moderno della scissione di Standard Oil o AT&T: una ristrutturazione imposta non dal mercato, ma dalla legge.
È lecito aspettarsi che, nei prossimi mesi, il colosso cercherà ogni scappatoia legale per rallentare il processo. Ma l’aria è cambiata. I regolatori, dopo decenni di complicità passiva, sembrano aver riscoperto il significato della parola “concorrenza”. L’era dei giganti impuniti potrebbe essere al tramonto. Anche per Google.