Il 2024 è stato un luna park. Tutti a giocare con i LLMs come fossero l’ultima app mobile in beta: prompt su prompt, playgrounds pieni, demo fighette e zero responsabilità. Ma ora che il giocattolo ha mostrato i denti, il 2025 si candida a essere il momento della verità. Niente più sandbox, si parla di production-grade deployments. L’era degli agenti AI autonomi, che prendono decisioni e agiscono davvero. Senza babysitter. Senza rete.
Il problema? Ce ne sono troppi. E ognuno promette la luna.
LangGraph, CrewAI, AutoGen, Semantic Kernel, SmolAgents, AutoGPT, Google ADK, per citarne alcuni.
Sembra una lotteria. Ma non lo è. È una guerra silenziosa per dominare lo stack esecutivo dell’IA.
LangGraph è il cavallo da corsa per chi ha bisogno di sistemi complessi, reattivi e stateful. È pensato per flussi decisionali articolati e dinamici, dove la coordinazione tra più agenti (e magari un umano ogni tanto) diventa il cuore del processo. Non è sexy come un chatbot, ma è chirurgico. Se hai bisogno di pianificazione reale, orchestrazione multi-step e resilienza in ambienti mutanti, LangGraph è un framework, non un giocattolo.
CrewAI invece sembra il tool perfetto per scenari dove il concetto di “ruolo” conta. Simulazioni di team, ambienti clinici, task cooperativi con logica distribuita. Il suo valore sta nel bilanciare l’esecuzione adattiva con un design orientato alla squadra. Una specie di Agile in versione LLM, con meno scrum master e più agenti intelligenti.
AutoGen di Microsoft punta sulla personalizzazione spinta. Più che un framework è una filosofia: ogni agente ha un’identità API-centrica e un contesto narrativo denso. È perfetto per costruire copiloti aziendali, oppure sandbox di ricerca con una granularità chirurgica sul comportamento. Non economico in termini di risorse, ma preciso come un bisturi.
SmolAgents è l’opposto ideologico. Leggero, modulare, sperimentale. La sua forza sta nella semplicità: ti permette di iterare velocemente, sbagliare con poco costo, esplorare senza dover montare una centrale nucleare. È il compagno ideale per developer solitari, piccoli team R&D o chi vuole solo testare delle ipotesi rapide, senza fronzoli.
AutoGPT resta nel limbo: affascinante ma ancora troppo instabile. È l’enfant terrible degli agenti: sa fare tutto, ma con l’affidabilità di un adolescente iperattivo. Web browsing, memoria autonoma, task-driven… ma zero garanzie. Eppure, in certe nicchie dove la supervisione è impossibile e il rischio è accettabile, è ancora un’opzione da tenere sott’occhio.
Semantic Kernel invece è già vestito da enterprise: sicurezza, conformità, memoria strutturata, embedding e orchestrazione pulita. Chi lavora in ambienti regolamentati o customer-facing sa già che la checklist di SK è fatta per tenere svegli gli auditor. È come il SAP degli agenti AI. Noioso, sì. Ma funziona sempre.
Google ADK è l’ultimo arrivato ma con pedigree. Pensato nativamente per Gemini, si muove con modularità e integrazione verticale. L’ambizione è chiara: costruire il framework che domina il conversational AI, con orchestrazione scalabile e una UX degna del team Android. Non è ancora maturo, ma chi scommette sull’ecosistema Gemini farà bene a tenerlo d’occhio. O sarà costretto a farlo, volente o nolente.
A questo punto la domanda non è “quale framework è migliore?”, ma “quale puoi permetterti di scalare, integrare e mantenere vivo nei prossimi 24 mesi?”.
Non serve quello più smart, serve quello meno fragile.
Non quello più potente, ma quello componibile.
Perché la realtà è questa: l’AI agent non è più il frutto di una bella idea. È una questione di architettura, governance e capacità di aggiornamento continuo.
Se sbagli framework, non fallisci subito.
Peggio: fallisci lentamente.
E nemmeno te ne accorgi.
Nel 2025 la scelta del framework non è tecnica. È strategica.
E non hai molte seconde occasioni.
