Quando pensavi che la geopolitica avesse già fatto abbastanza danni all’economia globale, ecco che arriva un’altra bomba: AMD annuncia un impatto da fino a 800 milioni di dollari a causa delle nuove restrizioni USA sulle esportazioni di semiconduttori verso la Cina. E come se non bastasse, il giorno prima Nvidia aveva già comunicato alla SEC un colpo ben più devastante: 5,5 miliardi di dollari bruciati per colpa delle stesse licenze. Tutto questo mentre le azioni di entrambi crollano di circa il 7% come se fosse il lunedì nero del 1987.
Benvenuti nell’ennesimo capitolo della saga “Silicon Valley contro Pechino”, dove i chip non sono più solo tecnologia, ma strumenti di pressione internazionale. Per AMD, la ferita è doppia: non solo si prevede una mazzata in bilancio, ma anche il futuro delle sue GPU MI308 –pensate per AI e gaming di alto livello è ora sospeso nel limbo delle autorizzazioni del Dipartimento del Commercio USA. Tradotto: progettare chip da miliardi e poi sperare che Washington ti lasci venderli. Un business model da roulette russa.
Nel documento depositato alla SEC, AMD ha candidamente ammesso che chiederà le licenze per esportare, ma senza alcuna garanzia che le otterrà. E mentre si mette da parte quasi un miliardo per coprire l’eventuale perdita tra scorte, impegni d’acquisto e fondi di riserva, la vera partita si gioca a un altro tavolo: quello della supremazia tecnologica globale, dove gli USA stanno usando il freno a mano per rallentare l’ascesa cinese nell’intelligenza artificiale. Non è una novità, ma la forma è più aggressiva che mai.
Nvidia, dal canto suo, ha ricevuto una vera e propria cartolina di Natale anticipata: licenza obbligatoria per l’H20, l’unico chip AI che ancora poteva vendere in Cina senza problemi. E come una tassa sull’ossigeno, il requisito durerà “a tempo indeterminato”. Il CEO Jensen Huang, con il suo aplomb orientale e l’inossidabile fiducia nel progresso, ha dichiarato che nulla potrà fermare l’AI globale, anche se ormai la sua azienda pare più impegnata con i legali che con gli ingegneri.
Non dimentichiamo che questa guerra dei chip non è iniziata con Trump, ma è con lui che ha preso i contorni di una crociata. Biden, nella sua versione più sobria, ha mantenuto le restrizioni. Trump, che sembra già agire da presidente de facto, promette un ritorno ancora più muscolare, minacciando di far esplodere l’intero commercio tecnologico con Pechino. E Wall Street reagisce come previsto: nervi tesi, azioni a picco, investitori che corrono a coprirsi dietro ETF e bond a breve scadenza.
Il punto, però, non è solo la perdita a bilancio per AMD o Nvidia. È la trasformazione irreversibile del mercato dei semiconduttori in uno scacchiere geopolitico, dove ogni innovazione può diventare un’arma e ogni transazione un caso diplomatico. Le aziende americane si ritrovano ostaggio di strategie governative che rispondono più alla paranoia da superpotenza che alla logica di mercato.
Ma il mercato, si sa, ha la memoria corta e l’avidità lunga. Appena qualcuno troverà una scappatoia legale, un modo per mascherare l’origine di un chip o una triangolazione via Singapore, tutto tornerà a girare. Finché non scatterà il prossimo embargo, e il ciclo ricomincerà da capo.
Per ora, il titolo AMD è a tappeto, e Wall Street si lecca le ferite. Ma il vero problema è che il mondo ha appena scoperto che l’AI – quella che dovrebbe salvare il pianeta, curare il cancro e scrivere poesie – può essere sabotata da un modulo di esportazione su carta intestata del Dipartimento del Commercio. E no, non è un bug del sistema. È il sistema.