Se c’è una costante nella geopolitica economica degli Stati Uniti targati Trump, è questa: ogni volta che si alza una barriera doganale per punire la Cina, qualcuno in California piange. E ora a piangere, con le tasche alleggerite di almeno un miliardo di dollari l’anno, sono proprio i colossi dell’industria dei semiconduttori americana. Applied Materials, Lam Research, KLA, e i player minori come Onto Innovation stanno facendo i conti non con i margini, ma con l’ascia di un protezionismo miope che rischia di segare il ramo su cui l’America tecnologica è seduta.

Secondo quanto riportato da Reuters, le tre principali aziende statunitensi produttrici di apparecchiature per semiconduttori stanno ciascuna fronteggiando perdite stimate attorno ai 350 milioni di dollari l’anno. Non a causa di un crollo della domanda, ma per le tariffe doganali decise dal solito zelo patriottico di Washington, in versione campagna elettorale. Onto Innovation, meno nota ma comunque presente nella supply chain globale, rischia perdite nell’ordine delle decine di milioni. Bruscolini, certo, ma solo per chi non lavora nell’azienda.

Il meccanismo è semplice e spietato: vendi meno all’estero perché i tuoi prodotti diventano più cari e meno competitivi, paghi di più i pezzi che ti arrivano da mercati globalizzati che ormai ignorano il concetto di “Made in USA”, e infine ti ritrovi sommerso da nuove montagne di burocrazia e compliance, perché ogni dogana diventa un ufficio legale. Il tutto mentre la Cina, invece di tremare, accelera sulla sua autosufficienza tecnologica, investendo cifre da capogiro per produrre localmente tutto ciò che oggi importa.

La cosa tragicomica è che la stessa amministrazione Trump ha temporaneamente sospeso alcune misure reciproche, un segnale che forse nemmeno loro sono pienamente convinti dell’effetto boomerang. Ma nel frattempo l’indagine sul settore delle apparecchiature per chip è partita, e l’idea di imporre ulteriori dazi è tutt’altro che archiviata. Tradotto: più burocrazia, meno margini, e una catena del valore che inizia a tremare come una fabbrica in zona sismica senza fondazioni.

Non bastasse, Nvidia ha ricevuto comunicazione ufficiale dal governo USA che, per esportare la sua GPU H20 in Cina, dovrà ottenere una licenza. Un altro chiodo sulla bara di un mercato che rappresentava uno dei più importanti sbocchi per le aziende americane di AI hardware. Perché, inutile girarci intorno, il problema non è solo economico: è culturale. Pensare di dominare la tecnologia globale chiudendosi in casa è come voler vincere una gara di F1 guidando con il freno a mano tirato.

Nel frattempo, le aziende cinesi, ben consapevoli della posta in gioco, investono in fabbriche, software, chip design e supply chain alternative. E lo fanno con la calma glaciale di chi sa che il tempo gioca dalla sua parte. Mentre Silicon Valley guarda verso est con l’aria di chi capisce che, questa volta, il problema non viene da Pechino, ma da Washington.