OpenAI, nel suo eterno pendolo tra messianesimo tecnologico e capitalismo a trazione turbo, ha annunciato una nuova funzione per ChatGPT: la tanto attesa Image Library. Se usi l’AI per generare immagini, da oggi potrai finalmente vedere tutto il tuo piccolo museo di deliri visivi organizzato in griglia, direttamente dentro l’app mobile e a breve anche sul web. Lo hanno mostrato con un video promozionale di quelli corti, emozionali e pulitissimi, dove si vedono le immagini ben impaginate nel nuovo tab Library, con tanto di bottone fluttuante per crearne di nuove. In pratica, una galleria Instagram privata delle tue fantasie digitali, senza bisogno di doverle risalvare manualmente o andarle a cercare tra mille thread.
A volerla leggere superficialmente, è solo una feature in più. Ma a guardarla con l’occhio di chi conosce i giochi del potere e del prodotto, è chiaro che OpenAI si sta strutturando per diventare il contenitore creativo del prossimo decennio. Questo significa disintermediare anche i creatori visivi tradizionali, e spingere l’utente medio a costruire una relazione sempre più personale con l’output dell’AI. La Library non è solo comodità: è fidelizzazione travestita da UX.
Ma mentre ci incantiamo a guardare gatti steampunk o tramonti post-apocalittici in stile Ghibli, la partita vera si gioca altrove. Proprio nei giorni in cui l’azienda guidata da Sam Altman rilascia queste feature zuccherose, arriva un’altra notizia molto più interessante, e pericolosamente strategica: la creazione di una commissione filantropica con tanto di “advisors” blasonati per guidare l’anima nonprofit di OpenAI.
Sì, proprio quella nonprofit che secondo molti compreso Elon Musk, tra un tweet incendiario e una causa legale è stata ormai completamente fagocitata dalla sete di profitto. I nomi scelti sono una collezione curata di icone sociali: Dolores Huerta, storica attivista dei diritti dei lavoratori; Monica Lozano, con un piede nell’istruzione e l’altro nel consiglio di amministrazione Apple; Robert Ross, esperto di salute pubblica; e Jack Oliver, che viene descritto con il più vago dei profili: “leader in government, technology, business and advocacy”, il che in gergo da PR può voler dire tutto o niente.
Secondo OpenAI, l’obiettivo della commissione è far sì che il braccio filantropico dell’organizzazione diventi un “moltiplicatore di impatto” per chi combatte le sfide globali più urgenti. C’è tutto il vocabolario dell’umanitarismo tecnologico: salute, istruzione, scoperta scientifica, servizio pubblico. Manca solo la pace nel mondo, ma magari è nel backlog.
È difficile non leggere questa mossa come un’operazione di facciata, o peggio ancora, di greenwashing morale. Soprattutto considerando che proprio il passaggio da nonprofit a for-profit è stato l’epicentro di una frattura interna all’azienda. Ex dipendenti, sostenuti da un gruppo di leader no-profit e sindacali, hanno chiesto al procuratore generale della California di indagare sulla trasformazione di OpenAI in una macchina da profitto. La stessa macchina che oggi ti mostra le tue immagini con una UI carina, mentre ti rassicura che in fondo, il suo cuore è ancora buono.
Il punto vero è che OpenAI non sta semplicemente costruendo strumenti. Sta costruendo la narrativa. E la narrativa è questa: siamo i custodi della tecnologia che salverà il mondo, e lo faremo mentre monetizziamo ogni clic. Una retorica già vista, già sentita, ma ora dotata di una potenza computazionale e una scala di adozione che la rendono credibile. Pericolosamente credibile.
Insomma, mentre ci danno una galleria per i nostri giocattoli visivi, consolidano la loro architettura di consenso morale. Funziona. Perché funziona sempre.
La buona notizia? Almeno l’interfaccia è bella.