Quando un investitore attivista bussa alla porta, non lo fa mai per cortesia. E quando si chiama Elliott Investment Management, non bussa affatto: entra, si siede alla testa del tavolo e inizia a riscrivere le regole del gioco. Stavolta l’obiettivo è Hewlett Packard Enterprise, azienda che una volta rappresentava il cuore pulsante dell’IT enterprise americano e che oggi sembra arrancare nell’ombra dei suoi rivali più aggressivi. Con un investimento superiore a 1,5 miliardi di dollari, Elliott non ha semplicemente fatto un ingresso trionfale in HPE — ha premuto il grilletto su una ristrutturazione che, a meno di miracoli, non sarà né gentile né silenziosa.

La notizia, riportata in prima battuta da Bloomberg (fonte), ha avuto l’effetto sperato: un +4% secco sul titolo, come ogni annuncio ben orchestrato che promette “creazione di valore per gli azionisti”. Una frase tanto elegante quanto ambigua, che di solito tradotta in aziendalese significa: tagli, spin-off, vendita di asset non strategici, licenziamenti e altre “razionalizzazioni”. Il menù classico dell’attivismo made in USA.

Cosa vorrà fare Elliott? Mistero. Non è mai una buona notizia quando la roadmap strategica è un’incognita avvolta in una narrativa di salvataggio. La verità è che HPE, con la sua capitalizzazione ferma a 20 miliardi di dollari, è una balena spiaggiata su un mercato che corre alla velocità dell’intelligenza artificiale. Mentre Nvidia e Dell si contendono il palcoscenico a suon di GPU e hyperscale, HPE gioca ancora a scacchi con un set di pezzi sbagliati.

Il crollo del 30% del titolo dall’inizio dell’anno è solo il sintomo. Il problema vero è strutturale: HPE non è riuscita a cavalcare il boom AI, nonostante i proclami. I margini sulla vendita di server sono rasoterra, compressi da una concorrenza feroce e da dazi che strozzano la supply chain. E nel frattempo, le ambizioni cloud restano dei PowerPoint ben disegnati ma privi di trazione.

Elliott lo sa. Come lo sanno tutti gli analisti che da anni guardano HPE come un conglomerato troppo complesso e troppo lento per competere in un mercato che oggi richiede visione, integrazione e brutalità esecutiva. È probabile che la prima mossa sarà forzare un refocus sull’hardware di fascia alta e una possibile separazione (o cessione) delle divisioni a basso margine. Lo ha già fatto con aziende come AT&T, Twitter, eBay e SoftBank, sempre con la stessa metodologia: entrare con una partecipazione rilevante, esercitare pressione sul management, ristrutturare, monetizzare.

HPE, in questo momento, è un asset sottovalutato con una buona base installata e una brand recognition ancora solida. Ma l’inerzia è un lusso che oggi non si può permettere. Elliott è qui per farla saltare. Nessuna pietà per le aziende lente, incerte o nostalgiche. Il passato non paga dividendi.

Lo farà funzionare? Difficile dirlo. Ma una cosa è certa: per HPE questa è l’ultima chiamata. E quando Elliott prende il controllo del telecomando, lo show che segue raramente è noioso.