Tutti parlano di prompt, fine-tuning e LLM come se bastasse scrivere “dimmi cosa pensi di questo PDF” per svoltare. Ma costruire una demo brillante non vuol dire essere pronti per la produzione. E in mezzo ci sono dodici stazioni infernali, tipo una via crucis dell’AI, che ogni team serio deve attraversare se vuole consegnare valore vero e non solo fuffa da keynote.
Il primo inciampo è sempre lo stesso: confondere il giocattolo con l’infrastruttura. La differenza tra un bel prototipo in Hugging Face e un sistema distribuito che regge l’urto del traffico reale è abissale. Uno è arte, l’altro è ingegneria. E i team che fanno sul serio lo sanno.
Si comincia con una bestemmia concettuale: la definizione del problema. Non “voglio chattare con un PDF”, ma cosa serve davvero al business? Ridurre i costi di assistenza? Aumentare la conversione? Migliorare l’accuratezza nella ricerca di documenti legali? Ogni obiettivo implica una diversa architettura, un diverso dataset e – attenzione – metriche di successo tangibili, non solo “wow effect”.
Poi si entra nella palude della data collection & preprocessing. Qui cadono in molti. Perché se pensi che basti buttare dentro uno zip di file, preparati a scoprire l’arte nera del cleaning, del parsing semantico, dell’annotazione e della deduplicazione. Garbage in, garbage out: se i dati sono un casino, lo sarà anche il modello.
La scelta del modello non è un dibattito tra fanboy: LLaMA, GPT, Claude, Mixtral… non si sceglie per hype, ma per contesto, licenza, latenza, costi e capacità di fine-tuning. Un modello open può sembrare figo, ma se poi devi gestire l’inferenza con budget ridicolo e un devops in burnout, forse tanto vale usare un’API gestita.
Il fine-tuning è l’illusione che basti dargli un paio di esempi per farlo diventare esperto. E invece no: servono pipeline solide, dataset bilanciati, esperimenti A/B e, soprattutto, una comprensione profonda del dominio.
Poi arriva l’epoca dei prompt, che molti trattano come alchimia. Ma qui c’è più UX che magia. Scrivere prompt non è “essere bravi con le parole”: è progettare interazioni, pensare a fallback, anticipare failure mode, gestire temperature e token limit come se fossero risorse computazionali, non poesia.
Nessuno dovrebbe parlare di deployment senza aver fatto evaluation & validation seria. Vuol dire metriche automatiche, ma anche test con utenti reali. Perché l’AI che sembra perfetta con tre domande fuffa spesso implode di fronte a una richiesta banale ma concreta.
L’etica non è optional. Se il tuo sistema perpetua bias o hallucinations, stai creando un rischio legale e reputazionale. Serve audit, serve explainability, serve un approccio privacy-first. E questo spesso fa schifo a chi vuole solo “muoversi velocemente e rompere cose”.
Il ciclo monitoring → iteration → scaling è il punto in cui finisce l’illusione e comincia il lavoro. Log analysis, retraining continuo, feedback loop. Il deployment non è un evento: è l’inizio del ciclo di vita. E se non hai pianificato per scalare, sei fregato. Punto.
Quindi sì, belle le demo. Ma se stai costruendo copiloti per il tuo team legale, o assistant intelligenti per il supporto clienti, o agenti autonomi per orchestrare task complessi… hai bisogno di una strategia da team di prodotto, non da maker del weekend.
Per il resto, ricordati: la differenza tra un prototipo figo e una soluzione GenAI di valore è la stessa che c’è tra un pitch da startupper e il bilancio di fine anno.