Nel panorama rarefatto della pianificazione infrastrutturale italiana, Mario Tartaglia Lead del Research Center lancia una provocazione tanto elegante quanto velenosa: “To Predict or to Build the Future?”. Una domanda che non è un semplice invito alla riflessione, ma un’accusa neanche troppo velata verso la cronica miopia decisionale di chi dovrebbe disegnare il nostro domani su rotaie, asfalto e reti digitali.
Tartaglia non gioca sul banale ottimismo futurista. Mette in fila quarant’anni di incoerenza istituzionale – dal primo Piano dei Trasporti del 1985 alla tragicomica sequela di liste della spesa strategiche della cosiddetta Legge Obiettivo del 2001 per farci capire che il vero cigno nero non è la pandemia, né il cambiamento climatico. Il vero Black Swan è l’incapacità sistemica di pianificare con visione. E, come suggerisce il buon Nassim Taleb, il COVID non era nemmeno un cigno nero: era un elefante nella stanza, annunciato da Gates, Quammen e mezzo mondo scientifico. Ma come al solito, nessuno ha ascoltato Cassandra.
L’approccio dominante nel planning dei trasporti è quello che Tartaglia chiama Predict-and-Provide. Tradotto: prevediamo cosa succederà (spesso male), e poi costruiamo qualcosa per inseguire quella previsione. Il risultato? Una spirale infernale in cui ogni nuova infrastruttura non risolve un problema, ma ne crea uno più grande. Più strade, più traffico. Più capienza, più domanda. Un ciclo vizioso in cui i modelli matematici non aiutano: li usiamo per giustificare politiche già decise, non per guidarle. E quando il modello non dice ciò che vogliamo sentirci dire, lo torturiamo finché confessa. Ronald Coase docet.
A fare da contraltare c’è l’approccio Vision-Led, o Decide-and-Provide. Una specie di eresia per gli ingegneri vecchia scuola: non prevedere il futuro, ma sceglierlo. Non inseguire la domanda, ma indirizzarla. Una metodologia che parte da una visione desiderabile del futuro – sostenibile, collettivo, umano e disegna strategie e scenari per avvicinarcisi. Non è una fuga nel sogno utopico, ma una scelta consapevole di responsabilità strategica. Un ritorno all’etica della pianificazione come atto politico, non solo tecnico.
In questa visione, i modelli restano strumenti. Utili, ma fallibili. “All models are wrong, but some are useful”, diceva George Box. Il problema è che ci dimentichiamo le assunzioni dietro quei modelli, e finiamo a costruire autostrade perché “il modello lo dice”. Il planner non guida più, è guidato. O, peggio, è ostaggio.
Tartaglia smaschera anche l’ultimo rifugio dei pianificatori pigri: l’alibi della variabilità. I dati? Falsabili. Le previsioni? Sistematicamente sbagliate. I ponti tra Danimarca e Svezia? Sottoutilizzati per anni, poi sovraccarichi. Le demografie? Interpretate a piacere come la misura dei 100.016 soldati di Cesare. Tutto, in fondo, diventa un esercizio di auto-conferma.
La chiusura del suo intervento si appoggia all’esperienza parigina, dove la Vision-led approach è più di una teoria accademica: è un metodo operativo. Qui si lavora con scenari preferiti, non con futuri passivi. Si testano politiche contro visioni a lungo termine, si monitora, si adatta. Si pianifica come si governa: con un’idea, non con un foglio Excel.
Nel suo insieme, l’intervento è un manifesto da far leggere nelle scuole di amministrazione pubblica e negli uffici studi dei ministeri. Ma anche una sveglia per noi tecnici e decision maker. Non possiamo più fingere che il futuro accada. Il futuro si costruisce, oppure ci schiaccia.
Per chi vuole leggere il documento originale, ecco il link ufficiale del FS Research Centre. E magari, per una volta, leggiamolo davvero.
Perché pianificare, in fondo, è l’unico modo serio di immaginare. E senza immaginazione, restano solo rovine.
La presentazione è su un’altro livello…