L’Irlanda, terra di folletti, di San Patrizio e headquarters tech europei, ha deciso di non farsi incantare dalle magie di Elon Musk. Il suo nuovo giocattolo, Grok, l’intelligenza artificiale sviluppata da xAI, è ufficialmente sotto indagine da parte del Data Protection Commission (DPC) irlandese. E come sempre, non si parla di dettagli tecnici ma di privacy, la moneta più preziosa nell’economia dell’attenzione.

Il cuore della questione è la presunta violazione del GDPR, quel famigerato regolamento europeo che ogni CEO americano sembra conoscere solo per sentito dire, ma che puntualmente riesce a ignorare finché non arriva una sanzione milionaria. Secondo l’autorità irlandese, Grok sarebbe stato addestrato usando i post degli utenti europei su X, la piattaforma social ex-Twitter, di proprietà dello stesso Musk. Il problema? Quei dati potrebbero essere stati utilizzati senza un consenso esplicito e informato, come richiesto dalla normativa comunitaria. In altre parole: “Caro Elon, non puoi usare i nostri tweet per insegnare al tuo robottino a parlare, se prima non ci chiedi il permesso.”

Questa non è una prima volta per Musk nel mirino del DPC. Già lo scorso anno, sotto pressione, X aveva accettato di sospendere l’uso dei dati personali dei cittadini europei per addestrare l’IA. Ma si sa, Elon è un fan della strategia del “move fast and break things”, e sembra che quella sospensione sia durata giusto il tempo di firmare un paio di comunicati stampa.

La posta in gioco non è solo legale ma anche geopolitica. Il fatto che xAI abbia inglobato X in un affare da 80 miliardi di dollari, mentre il social veniva valutato appena 33 miliardi, lascia trasparire una strategia ben chiara: utilizzare la montagna di dati pubblici (e semi-privati) di X per potenziare l’intelligenza artificiale. In altre parole, Musk non sta solo costruendo un’IA, sta costruendo un impero basato su ciò che gli utenti scrivono ogni giorno, spesso inconsapevoli del valore di quei contenuti.

Non sorprende quindi che le autorità europee inizino a inquietarsi. Non è solo una questione di privacy, ma di potere informativo e influenza. Musk ha già espresso pubblicamente il suo disprezzo per regolamenti come il Digital Services Act, considerati da lui ostacoli alla “libertà di espressione”. Ma qui il nodo è un altro: la libertà non significa poter fare il bello e il cattivo tempo con i dati altrui, soprattutto in un continente che della sovranità digitale fa ormai una bandiera.

Da un punto di vista tecnico, il tema è spinoso: è lecito utilizzare dati pubblici per addestrare modelli di linguaggio? La giurisprudenza europea tende a rispondere: sì, ma solo entro limiti ben precisi. E Musk, con il suo approccio da cowboy della Silicon Valley, tende a ignorare quei limiti finché qualcuno non gli sbarra la strada.

In questo scenario, l’Europa si conferma ancora una volta come il grillo parlante dell’era digitale, mentre gli Stati Uniti continuano a coccolare i loro unicorni fino a farli diventare Godzilla. Ma per quanto tempo ancora sarà sostenibile questo squilibrio?