A Washington si è celebrata l’ennesima seduta teatrale mascherata da audizione congressuale, dove il sipario si è alzato su un paradosso tutto americano: per dominare il futuro dell’intelligenza artificiale, bisogna consumare il passato dell’energia. Una corsa al primato tecnologico che brucia elettricità come se fosse carbone dell’Ottocento, mentre la questione climatica viene elegantemente ignorata come un cameriere troppo zelante a un gala di miliardari.

Eric Schmidt, ex CEO di Google e oggi nuovo profeta dell’IA sotto le vesti del suo think tank “Special Competitive Studies Project”, ha scodellato la nuova verità: “Abbiamo bisogno di energia in tutte le forme, rinnovabili o meno, subito e ovunque”. Una chiamata alle armi energetica che sa tanto di manifesto industriale più che di politica nazionale.

Durante l’audizione della Commissione Energia e Commercio della Camera, la parola d’ordine è stata una sola: “dominanza”. Dominanza sull’energia. Dominanza sull’IA. Dominanza sulla Cina. E se per raggiungerla bisogna mettere in pausa il pianeta, pazienza. Quattro ore di interventi bipartisan dove repubblicani e democratici si sono annusati e ignorati a turno, uniti da un’ansia esistenziale: perdere la corsa contro Pechino.

L’approccio di Trump è stato chirurgico quanto brutale: cancellare l’ordine esecutivo di Biden sull’IA che cercava almeno un minimo di equilibrio tra progresso tecnologico e diritti civili — e sostituirlo con una versione da guerra fredda aggiornata in salsa siliconica. Niente più vincoli, niente più clima, solo algoritmi, chip e kilowatt. E se ci vogliono più centrali a carbone per sostenere i modelli linguistici, che così sia. D’altronde, come ha detto Schmidt con un tono che rasenta la profezia esoterica, “una volta che avremo vinto, l’IA risolverà anche la crisi climatica”.

Ecco, questo è il tipo di religione tecnologica che si predica ora: una fede cieca nell’IA come panacea, persino dei problemi che essa stessa aggrava.

Nel frattempo, la fame energetica dei data center — veri mostri elettrici che bevono corrente come una città media — è già un’emergenza infrastrutturale. Le reti elettriche scoppiano, e le bollette pure. Ma il mantra rimane lo stesso: velocizzare, semplificare, trivellare. L’industria chiede che il governo federale “tagli la burocrazia” per far partire nuovi progetti energetici, possibilmente senza porsi troppe domande sulle fonti.

Manish Bhatia, vicepresidente di Micron, ha dato voce a questo desiderio collettivo di deregulation: basta ostacoli, avanti tutta. I margini contano più delle emissioni. Intanto i colossi tecnologici, che fino a ieri facevano greenwashing a tempo pieno, oggi iniziano a rimangiarsi i loro impegni ecologici, riconvertendo le promesse in centrali a gas.

Non sorprende quindi che nel nuovo corso trumpiano sia scomparso ogni riferimento al cambiamento climatico. Peccato che l’IA, oltre a surriscaldare il pianeta, stia anche raffreddando i diritti: dalla privacy alla trasparenza degli algoritmi. Su questo, almeno, i democratici provano a sollevare qualche obiezione, ma sono ormai voci fuori dal coro. Mentre i repubblicani parlano di “AI race”, i democratici sembrano più preoccupati di non sembrare troppo lenti.

Alexandr Wang di Scale AI, uno dei baby-miliardari del settore, ha lamentato il mosaico di leggi statali sulla privacy che frenano l’accesso ai dati. Soluzione proposta? Una legge federale che metta a tacere le velleità regolatorie locali, in nome della “priorità all’innovazione”. Tradotto: lasciateci saccheggiare i vostri dati in pace.

La ciliegina sull’apocalisse è la retorica bellica anti-Cina, che ormai pervade qualsiasi dibattito. L’ombra del chatbot DeepSeek, capace di “ragionare” meglio dei suoi omologhi occidentali, ha acceso le paranoie. Una superintelligenza cinese è diventata l’incubo del Congresso: se vince Pechino, perdiamo tutto. Il problema? Nessuno sa esattamente cosa significhi “vincere” in questo contesto, né quale sia il prezzo da pagare.

Mentre l’élite tecnologica americana si immola sull’altare dell’efficienza e della competitività, la popolazione rimane scettica. I sondaggi dicono che la maggioranza teme più danni che benefici dall’IA, e molti si aspettano che il governo faccia troppo poco, troppo tardi. Ma questi timori non trovano spazio tra le sedie imbottite di Capitol Hill, dove l’unica emozione ammessa è l’ansia di perdere potere.

In definitiva, la corsa all’intelligenza artificiale rischia di diventare una corsa verso l’idiozia strategica. Bruciamo energia per creare modelli che promettono di salvarci, mentre ci fanno affondare. La Cina osserva e prende appunti. E se davvero la posta in gioco è il dominio globale, forse sarebbe il caso di chiederci non solo come vincere, ma anche a quale costo.