SenseTime, la startup che da tempo ha smesso di comportarsi come tale, sta per far saltare il banco dell’intelligenza artificiale con una mossa tanto prevedibile quanto spregiudicata: moltiplicare a tre cifre la sua capacità di calcolo entro i prossimi due anni, spingendo sul pedale dei chip domestici in piena guerra tecnologica con gli Stati Uniti.
Yang Fan, co-fondatore di SenseTime e gran manovratore della divisione SenseCore, ha messo le carte sul tavolo. La capacità computazionale crescerà tra l’“alto doppia cifra” e il “tripla cifra” su base annua nei prossimi 24 mesi. Tradotto in numeri, nel 2024 si parla di un +92% rispetto all’anno precedente, con un totale che ha sfondato i 23.000 petaflops. Ma dietro ai numeri c’è molto di più: un progetto strategico per svincolarsi dalla dipendenza da chip statunitensi e una corsa dichiarata al profitto per il 2026. Il tutto, con una certa voglia di provocazione tecnologica made in China.
SenseCore, l’infrastruttura AI del gruppo, è stata potenziata con un upgrade annunciato in grande stile giovedì: più performance, soluzioni verticali per l’industria e un chiaro messaggio al mercato globale – siamo qui, cresciamo in fretta, e usiamo chip cinesi. Peccato solo che “la maggior parte” dei chip continui a essere Nvidia, come ha ammesso lo stesso Yang con il classico giro di parole che dice tutto e niente. Lo stesso Yang, un anno fa, parlava di un misero 15% di chip domestici nei loro data center di Lingang. Oggi la percentuale non viene dichiarata, ma “cresce velocemente ogni anno”. Bene, ma quanto?
Non è solo una questione di quantità, ma di qualità e soprattutto di usabilità. Le CPU e GPU cinesi, al netto della propaganda, fanno fatica a tenere il passo con i big americani. SenseTime però sembra puntare più sulla narrazione che sulla resa. “Abbiamo aiutato un cliente a portare il tasso di utilizzo al 80% usando 5.000 chip domestici”, ha detto Yang. Un risultato notevole se confrontato con la media di settore che si aggira intorno al 60%. Peccato che il contesto tecnico e i trade-off reali non siano chiari. Ottimizzare l’efficienza è una cosa, gestire l’interoperabilità tra chip eterogenei è un incubo da CTO, specie quando ogni chip cinese sembra parlare un dialetto diverso.
E qui arriva il colpo di teatro: mentre i colossi globali – dagli americani con il progetto Stargate alle megainfrastrutture di Alibaba con un budget da 52 miliardi di dollari – si gettano a capofitto negli investimenti capex pesanti, SenseTime gioca la carta dell’“asset-light”. Ovvero, niente data center monolitici a bilancio, ma co-gestione con partner terzi, soluzioni ibride software-hardware, e focus sul vendere “soluzioni complete”. Una mossa da manuale dell’agilità asiatica: costruire senza possedere, scalare senza legarsi al ferro, e monetizzare senza immobilizzarsi.
Yang elenca anche le aree che secondo lui assorbiranno più potenza nei prossimi anni: robotica, contenuti generati da AI, scienza computazionale e applicazioni industriali. Cioè tutto. La solita lista della spesa futuristica, ma con un retrogusto amaro: SenseTime ha bisogno di far cassa, e velocemente. Il target di utile netto nel 2026 è ambizioso, considerando che oggi il modello di business resta ancora fortemente orientato alla ricerca e alla sperimentazione.
Nel frattempo, in un angolo del mondo dove l’AI è ancora un terreno di scontro geopolitico prima che economico, SenseTime si muove come un prestigiatore: promette petaflops, rivendica indipendenza tecnologica, ma intanto fa girare la magia con le GPU Nvidia.
Se l’obiettivo è costruire un colosso AI autonomo, con chip patriottici e performance industriali, la strada è lunga e irta di siliconi fallati. Ma se il gioco è mostrare i muscoli per attrarre clienti, investitori e qualche funzionario del partito, allora il teatro SenseTime sta funzionando alla perfezione.