Non c’è niente di più LinkedIn-core del trasformarsi in un action figure e raccontare al mondo che la tua “arma” è una tazza di caffè e il superpotere una tastiera. Se ti stavi chiedendo qual è il nuovo passatempo digitale del branco di marketer, recruiter e aspiranti thought leader, eccoti servito: l’ultima mutazione dell’ego professionale si materializza in plastica (digitale), blister e accessori personalizzati. È la tendenza delle “AI Action Figure”, figli illegittimi dell’ultima ondata virale generata da ChatGPT, dopo il delirio visivo in stile Studio Ghibli.
Nel panorama inarrestabile dei trend figli di prompt scritti male e pixel disegnati troppo bene, il giocattolo personalizzato è l’ennesima forma di autocelebrazione travestita da contenuto creativo. Con il suo packaging da scaffale Walmart e le pose da finto modesto imprenditore del secolo, l’action figure AI non è altro che la versione 3.0 del biglietto da visita con sfondo motivazionale. Ovviamente, tutto questo ha trovato il suo habitat naturale su LinkedIn, dove ogni post è una TED Talk mancata e ogni like un’autoconferma esistenziale.
Le varianti sono infinite, ma due sono le dominanti: il blister pack à la action figure con laptop, libro e caffè, e la versione “Barbie Box Challenge”, con tanto di estetica rosa, pose da influencer e, manco a dirlo, una didascalia che strizza l’occhio all’empowerment. Da notare: questa tendenza non ha ancora attirato le ire funeste dei fan ortodossi come è successo per la febbre da Ghibli-style — dove ambientalisti, creativi e guardiani del copyright sono scesi in campo per difendere l’onore del maestro Miyazaki — ma si tratta solo di una questione di tempo.
Il punto nevralgico, però, non è tanto il trend in sé. È che ogni volta che esplode una moda visiva come questa, ChatGPT finisce in prima fila. Nessuno cita Midjourney, DALL·E o Stable Diffusion con la stessa costanza. Il nome che appare sempre è ChatGPT, anche se dietro le quinte è un’altra AI a generare le immagini. Il brand è diventato sinonimo di “fammi vedere quanto è creativo il mio prompt”, e poco importa se il risultato è banale, ripetitivo o già visto. Il punto non è creare. È apparire creativi, possibilmente senza sforzo.
Dietro questo micro-boom c’è anche un dettaglio tecnico: OpenAI, di fronte all’enorme domanda iniziale dopo il lancio dell’aggiornamento text-to-image, ha dovuto limitare le generazioni gratuite e rimandare l’accesso per gli account free. Siamo al paradosso: l’infrastruttura dell’AI più famosa del mondo è stata quasi affondata da immagini di avatar in scatola. Come se Internet avesse deciso di giocare a collezionare miniature della propria mediocrità professionale.
Al momento, il fenomeno è contenuto, per lo più confinato nelle bolle di LinkedIn. I like sono pochi, l’engagement è ridicolo, e i contenuti girano soprattutto tra profili di marketing da 300 follower e agenzie disperate in cerca di visibilità. Alcuni brand hanno provato ad agganciarsi, ma il risultato è sembrato più un tentativo di rimanere nel feed che un vero colpo di genio creativo. E no, non ci sono celebrità vere coinvolte.
In fin dei conti, l’action figure AI è solo l’ennesimo tentativo di impacchettare l’identità digitale in un formato che dia l’illusione di unicità. È un selfie con i muscoli gonfiati dal prompt. Ma sotto la plastica, il contenuto resta sempre quello: un avatar che urla “guardami” in una piattaforma dove nessuno ascolta più nessuno.