Per anni, le aziende hanno puntato su offshoring, pionere e gigante fu EDS e nearshoring Accenture, IBM, HPE per delegare attività digitali complesse a regioni con costi contenuti. Tuttavia, con l’avvento delle straordinarie capacità dell’intelligenza artificiale, stiamo forse entrando in una nuova era: l’AI shoring. Questo concetto prevede che, anziché affidare compiti manuali come il monitoraggio degli avvisi bancari o le verifiche di conformità a team umani ubicati all’estero, le aziende inizino a sfruttare agenti di intelligenza artificiale e algoritmi di apprendimento automatico (ML). Questa transizione potrebbe rivoluzionare profondamente il modo in cui le organizzazioni affrontano attività ripetitive e basate su processi, aprendo la strada a un futuro più efficiente e automatizzato.
Mentre i piani industriali ancora puzzano di slide PowerPoint e decisioni da comitato, fuori dalla sala riunioni si sta consumando una rivoluzione. Invisibile, distribuita, automatica. Una terza via si sta affacciando oltre le classiche dicotomie strategiche del “make or buy”, ed è molto più subdola, molto più efficiente, e soprattutto non dorme mai: delegare attività operative e decisionali agli agenti AI. Battezziamola pure AI shoring, perché suona bene e inquieta quanto basta.
Il contesto è tossicamente saturo di strategie “make” con orgoglio artigianale spesso nazionalista o “buy” con finta razionalità da procurement senza sapere analizzare i BM. Ma questa nuova forma di “outsourcing interno” non riguarda il produrre o acquistare, riguarda il non fare. Delegare, demandare, disintermediare il lavoro a una nuova classe di soggetti digitali capaci di eseguire task, interagire con tool, apprendere da dati e – in alcuni casi prendere decisioni più rapide di qualsiasi middle manager con laurea in business administration (MBA) un affare sopratutto per chi li eroga.
Le imprese orientate al “make”, specie quelle con forte cultura ingegneristica o internalizzazione dei processi, si trovano oggi davanti a un paradosso: quello che prima era scartato per complessità, oggi può essere rivalutato perché un agente AI può gestirlo in autonomia, a costo marginale zero, e con scalabilità istantanea. Il vincolo non è più tecnico, è solo culturale. Le barriere d’ingresso sono evaporate, insieme ai margini dei fornitori che ancora vendono “ore uomo”.
Dall’altra parte, i provider esterni – i fornitori del “buy” – si trovano in una posizione strategica: trasformarsi in erogatori di agenti AI verticali, specializzati per domini, processi o industry. È la rinascita del BPO, ma senza call center e senza India: marketplace di agenti che si installano via API e si integrano in mezz’ora nel tuo stack operativo, pronti a lavorare.
I primi esempi sono già qui: modelli specializzati in contabilità, revisione contratti, assistenza legale, gestione logistica, procurement predittivo, HR automation, analisi competitive, e sì, anche nella redazione di articoli aziendali come questo. Benvenuti nel mondo del Work as a Service.
La parte tecnicamente interessante, e su cui si gioca tutto, non è tanto lo sviluppo di questi agenti, ma la loro valutazione. Perché mentre l’hype fa girare demo accattivanti, il CTO serio sa che bisogna testare sul campo. Serve un framework oggettivo. Non basta la demo in Figma o la slide dell’head of innovation con la GIF animata. Servono simulazioni comparative, test automatizzati via API, metriche KPI-based e soprattutto validazione su dati reali e cicli di lavoro veri, non quelli ideali della brochure.
La provocazione? Potrebbero essere altri agenti AI a fare la valutazione. Sistemi multi-agente, dove un “manager digitale” controlla, confronta e assegna task ad altri agenti. L’ironia di fondo è crudele: stiamo automatizzando anche la parte che dovrebbe decidere come automatizzare. E funziona.
In questo scenario, il concetto stesso di SaaS rischia l’obsolescenza. Perché pagare per un software quando puoi pagare per il lavoro finito? O peggio: perché pagare per il lavoro quando puoi pagare direttamente per il risultato? Entra così in scena il paradigma Results as a Service, dove ciò che conta non è più il tool, ma l’outcome. Niente più abbonamenti a piattaforme con milioni di feature inutilizzate. L’azienda del futuro paga per “80 contratti revisionati”, “100 lead qualificati”, “report settimanali sul sentiment di mercato” – e non importa chi (o cosa) li ha fatti.
Siamo all’alba di una ristrutturazione profonda dell’organigramma aziendale. Ruoli, dipartimenti, responsabilità: tutto è negoziabile, virtualizzabile, atomizzabile. Le aziende che riusciranno a orchestrare una forza lavoro ibrida fatta di umani aumentati e agenti specializzati avranno un vantaggio competitivo strutturale. Non per la tecnologia in sé, ma per la capacità di usarla come leva strategica.
Chi resta ancorato a vecchie logiche, a ERP da aggiornare, a team statici, o a vendor che vendono “ore di consulenza” finirà travolto. Non da un disastro improvviso, ma da una disintegrazione progressiva della rilevanza operativa. Invisibile. Come l’AI shoring.
L’IA segna davvero la fine dell’offshoring e del nearshoring? Non proprio. Piuttosto, potrebbe rappresentare una nuova fase della loro evoluzione. Pur restando l’outsourcing umano una componente importante, le soluzioni basate sull’intelligenza artificiale sono destinate a occupare un ruolo sempre più centrale, specialmente per attività che si prestano all’automazione. Il panorama dell’outsourcing è in continua trasformazione: la fiducia non si concentra più esclusivamente sui team umani, ma anche sui sistemi e sulla capacità delle aziende di adattarsi per garantire risultati concreti. La vera domanda non è più “se” le imprese adotteranno l’IA shoring, ma con quale rapidità e efficacia sapranno implementarlo.