Non è una guerra commerciale, è una partita a Risiko giocata da boomer vestiti da statisti, con le aziende tech americane al centro del bersaglio. Apple si è già beccata il primo colpo, ma ora anche Meta e Google rischiano di vedere i loro margini evaporare tra i fumi di ritorsioni e nuove fantasiose imposte pensate a Bruxelles, con la stessa lucidità con cui si sceglie il karaoke di fine anno in un ente pubblico.

Ursula von der Leyen, che evidentemente ha deciso di iniziare la campagna elettorale con l’eleganza di un colpo di mazza sul tavolo delle relazioni transatlantiche, ha proposto una tassa sui ricavi pubblicitari delle aziende statunitensi. Non sui profitti, attenzione, ma sui ricavi. Il che, per chi mastica un po’ di business, è come tassare l’aria condizionata di un ristorante e non il conto. È una misura punitiva, non una riforma. È una provocazione fiscale mascherata da giustizia economica, e come ogni provocazione, rischia di ottenere l’effetto opposto.

La logica? Sempre quella dell’autodifesa europea, come se Meta e Google vendessero pubblicità sotto costo e danneggiassero le povere e innocenti startup locali. Peccato che il mercato pubblicitario digitale non funzioni come il dumping della lamiera o dei pannelli solari. Le piattaforme americane dominano non perché fanno sconti, ma perché convertono. Gli inserzionisti europei non sono ostaggio di Zuck o di Pichai. Comprano lì perché vendono meglio. È capitalismo, Ursula, non imperialismo.

La proposta, oltre ad essere inefficace nel colpire il vero squilibrio di potere (cioè il monopolio tecnologico e i dati), è anche politicamente pericolosa. Perché chiunque sia alla Casa Bianca – Biden con l’aria da zio paziente o Trump con l’entusiasmo di un bulldog con la sciarpa MAGA – non starà certo a guardare. Il primo segnale c’è già stato: dazi alla Cina al 145%, tanto per scaldare i motori. Se l’Europa apre un altro fronte, l’amministrazione USA potrebbe rispondere colpendo le aziende europee che vendono negli Stati Uniti, o peggio, bloccando l’accesso ai servizi cloud americani per le imprese europee. Cioè spegnendo la luce.

Il danno per Google e Meta, nel frattempo, sarebbe concreto. L’Europa vale circa un quarto del fatturato di entrambe. Un’imposta sui ricavi significherebbe ridurre direttamente la profittabilità di quella fetta di business, proprio in un momento in cui l’intelligenza artificiale, le infrastrutture cloud e i margini pubblicitari stanno riscrivendo i bilanci. E se Google piange, anche Amazon e Microsoft non ridono: non sono nel mirino oggi, ma la logica protezionista non conosce limiti. Oggi la tassa, domani il divieto d’uso del machine learning importato.

Ma mentre la geopolitica si gioca sulle slide di Bruxelles, nel backstage del Google Cloud Next si consuma un’altra pièce teatrale, molto più umana e, diciamocelo, molto più divertente. Thomas Kurian, CEO di Google Cloud, ha citato NetApp nella sua keynote. Tutto normale, se non fosse che il CEO di NetApp è suo fratello gemello George. A questo punto manca solo che i due si scambino badge e keynote, e abbiamo il reboot tech di Parent Trap in diretta streaming.

E non è finita. Tra i “talent” della conferenza spunta anche Tate Renner, giovane cantante e figlio di Matt Renner, presidente dei ricavi globali di Google Cloud. La Silicon Valley non è più solo un club di laureati in informatica con la camicia fuori dai pantaloni. È un pranzo di famiglia con la chitarra, l’IA e il pedigree. Nepo baby? Forse. Ma qui il nepotismo ha un fondo di verità: nel cloud, chi controlla il palco controlla anche il billing.

Siamo al punto in cui i regolatori europei vedono mostri ovunque, mentre i mostri veri siedono sereni sul palco delle conference con un microfono in mano e l’algoritmo in tasca. Se questa è guerra, è una guerra di teatro, ma con armi vere.


Link all’articolo del Financial Times