Nel mondo iper-accelerato dell’intelligenza artificiale, i soldi sembrano crescere sugli alberi. Ma quando un’ex CTO di OpenAI lancia una startup, abbandona il carrozzone di Microsoft e in due mesi raddoppia il target di raccolta fondi a 2 miliardi di dollari, la faccenda prende una piega diversa. È quello che sta succedendo a Thinking Machines Lab, il nuovo mostro sacro in gestazione partorito da Mira Murati, ex mente tecnica dietro ChatGPT, ora pronta a giocare una partita tutta sua – con regole diverse, e ambizioni ancora più grandi.
Secondo quanto riportato da Business Insider, la società ha già messo sul piatto una valutazione da almeno 10 miliardi di dollari. In soldoni: una startup fondata tre mesi fa da ex ribelli di OpenAI sta per essere valutata più di molte aziende quotate con anni di attività alle spalle. Ma qui non si tratta solo di soldi. Si tratta di vendetta, visione e – soprattutto – controllo.
Mira Murati, donna silenziosamente centrale nell’ascesa dell’IA generativa, ha lasciato OpenAI proprio mentre il colosso iniziava a ballare sulle note composte da Microsoft. Il motivo? Non ufficiale, ma il timing e le mosse successive parlano da soli. Thinking Machines Lab nasce a febbraio, e nasce con un manifesto in tre punti che sembra il negativo fotografico della strategia OpenAI: aiutare le persone ad adattare l’IA ai propri bisogni (e non il contrario), creare fondamenta solide per sistemi più capaci, e – udite udite – promuovere una “cultura della scienza aperta”. Detta altrimenti, tutto ciò che OpenAI non è più da quando ha stretto il patto faustiano con Redmond.
Murati non è sola in questo spin-off d’élite. Ha reclutato John Schulman, co-fondatore di OpenAI e oggi chief scientist della nuova avventura, e Barret Zoph, un altro ex che ha mollato tutto nel settembre scorso per diventare il CTO di Thinking Machines. A guardar bene, sembra quasi che la nuova compagnia sia una “OpenAI 2.0” nata da una diaspora silenziosa. Sul sito della startup compaiono infatti altri ex di peso da OpenAI, ma anche transfughi da Google e Meta, a dimostrazione che chi ha visto come si fa l’IA dall’interno adesso vuole rifarla da capo – senza compromessi.
In tutto questo, il paragone con Safe Superintelligence di Ilya Sutskever è inevitabile. Anche lui ex OpenAI, anche lui ora fuori, e anche lui a caccia di una nuova IA più controllabile, più sicura, forse più umana. Sutskever ha già raccolto oltre un miliardo e una valutazione da 30 miliardi. Ma Thinking Machines Lab, con la sua struttura più operativa, più “engineering first”, e con una missione meno esoterica e più da laboratorio applicato, potrebbe essere un competitor molto più concreto. Non è un think tank, è una fabbrica.
Il mercato non è cieco, e il denaro fiuta la differenza: in meno di due mesi la raccolta target è passata da 1 a 2 miliardi. In un’epoca in cui il venture capital si lamenta della scarsità di deal di qualità, qui sembra che basti un post su LinkedIn per convincere i fondi a firmare assegni a nove zeri.
Ma attenzione. Questo non è solo un duello tra startup nate dall’implosione culturale di OpenAI. È una guerra civile all’interno del cervello collettivo dell’IA occidentale. E se Murati, Schulman e Zoph dovessero davvero riuscire a costruire sistemi di intelligenza artificiale più potenti e più personalizzabili, allora non sarà solo OpenAI a tremare. Tremerebbero Nvidia, Google DeepMind, Anthropic, e tutto l’ecosistema da trilioni che si è aggrappato alla narrativa della “corsa alla superintelligenza”.
Quello che emerge è un trend da seguire con attenzione cinica: le grandi menti non stanno più cercando di far parte dell’IA. Vogliono ri-scriverla. A modo loro. E con i soldi degli altri.