Nel teatro sempre più grottesco dell’economia globale, dove le regole del gioco sembrano essere scritte con l’inchiostro simpatico dell’interesse nazionale americano, la Cina ha deciso di mostrare i muscoli ma con il guanto bianco della diplomazia. Li Qiang, Premier della Repubblica Popolare, ha alzato la cornetta e parlato con Ursula von der Leyen per recitare un copione che sa di calma glaciale e determinazione sistemica: “abbiamo abbastanza strumenti politici in riserva” e “siamo pienamente in grado di contrastare gli shock esterni”.

Tradotto dal mandarino: Trump può pure giocare a Risiko con i dazi, noi giochiamo a Go con decenni di pianificazione centralizzata. Il messaggio è chiaro, e non è solo per l’Europa: Pechino non ha intenzione di piegarsi alla nuova ondata protezionistica partorita dalla Casa Bianca. Anzi, rilancia con il solito mantra del “difendere l’equità internazionale” un concetto che fa sorridere se pronunciato da un Paese che tiene in piedi il più sofisticato sistema di capitalismo di Stato mai concepito.

La telefonata con la Presidente della Commissione Europea ha assunto toni vagamente teatrali: stabilità, prevedibilità, cooperazione. Tutti termini che fanno bella figura nei comunicati, ma che nel concreto nascondono la paura crescente di una nuova recessione a catena innescata da guerre commerciali ad alto voltaggio geopolitico. La Cina ha infatti tutto l’interesse a mostrarsi come ancora di stabilità, specialmente davanti ad un’Europa che arranca tra spinte autarchiche e dipendenze industriali mai risolte.

Li Qiang ha anche sottolineato che le contromisure adottate da Pechino non sono soltanto un atto di difesa dei propri interessi — come dire: non è solo una questione di chip, acciaio o terre rare — ma un gesto nobile per proteggere “le regole del commercio internazionale” e quella strana entità che è la “giustizia globale”. Qui il tono cinico è d’obbligo: quando un Paese costruisce la sua potenza sulla manipolazione del renminbi e sulle sovvenzioni statali a pioggia, parlare di libero mercato suona come uno scherzo di pessimo gusto.

Dietro le dichiarazioni pubbliche si intravede però una strategia precisa: Pechino vuole evitare l’isolamento e punta a rafforzare i legami con Bruxelles, proponendosi come partner affidabile nel caos multipolare. L’Europa, dal canto suo, finge di ascoltare, ma resta intrappolata nel dilemma storico: seguire Washington a ogni costo o ritagliarsi un ruolo autonomo tra le superpotenze. Intanto i dazi americani cominciano a fare danni veri, e le filiere globali tremano.

In questo scenario, la Cina cerca di presentarsi come un’ancora di normalità, ma sotto la superficie affila le armi per una lunga resistenza economica. Il partito ha già pronta una serie di leve: stimoli interni, spinta sull’innovazione tecnologica e rafforzamento delle relazioni con i Paesi emergenti. Ma soprattutto, Pechino gioca sulla stanchezza occidentale: sa che le democrazie, sotto pressione elettorale e con le economie in affanno, sono meno coese e meno pazienti.

Non si tratta solo di chi vincerà la guerra dei dazi. Si tratta di chi scriverà le regole del prossimo ordine economico globale. E a giudicare dalla calma glaciale con cui Li Qiang ha parlato a von der Leyen, la Cina ha già deciso di sedersi al tavolo come co-autore, non come comparsa.

L’Europa sarà in grado di fare lo stesso intrappollato dalle 13.000 regole che hanno ucciso la suà capacità di entrare in un mercato libero, in un Europa non coesa senza un piano programmatico con i suoi Governi Instabili? Speriamo di Si’.