Quando si parla di guerre commerciali, si tende a pensare a dazi, ritorsioni e mercati in affanno. Ma in realtà, in ballo ci sono sempre definizioni. E stavolta, è la definizione di “origine” che sta facendo tremare le fondamenta dell’industria globale dei semiconduttori. La Cina, in un colpo da maestro di strategia geoindustriale, ha ufficializzato che l’origine doganale di un chip sarà determinata dal luogo in cui viene effettuata la wafer fabrication, ovvero la fase chiave in cui nasce fisicamente il semiconduttore, indipendentemente da dove venga impacchettato o testato. La notizia è stata diffusa dalla China Semiconductor Industry Association (CSIA) con un messaggio molto chiaro: chi fabbrica il wafer, vince.
Questa mossa, a prima vista meramente tecnica, è in realtà una bomba geopolitica travestita da comunicato doganale. Il suo effetto immediato? Spostare l’ago della bilancia verso le fonderie cinesi come SMIC e Hua Hong, che hanno registrato un balzo azionario rispettivamente del 5,9% e 14% subito dopo l’annuncio. In altre parole, un “boost” di fiducia che difficilmente si compra con una campagna pubblicitaria.
Ma soprattutto, questo colpo di scena rappresenta un sabotaggio elegante — e terribilmente efficace — del mantra trumpiano “Make America Great Again” che, tradotto nel lessico industriale, suonava come “riportiamo la manifattura a casa”. La Cina, semplicemente, ha risposto: “Bene, ma se non fabbrichi il wafer da noi, il tuo chip non vale più come prima“. Secondo la società di consulenza ICWise, basata a Shanghai, l’effetto concreto delle tariffe imposte da Trump sarà un paradossale “Make America outsource again”, con un’escalation di delocalizzazione piuttosto che reshoring.
E a rincarare la dose, Pechino ha annunciato un aumento dei dazi sui prodotti americani, portandoli al 125% dal già alto 84%. Mossa difensiva? Forse. Mossa strategica? Sicuramente. Eppure l’impatto immediato, secondo gli analisti, sarà relativamente contenuto. Molti dei chip importati dalla Cina, infatti, non sono prodotti direttamente negli USA, ma provengono da fabbriche in Taiwan, Corea del Sud o Malesia, che riforniscono giganti come Apple, AMD, Nvidia e Qualcomm.
Chi rischia grosso, invece, sono le foundries USA pure-play come Intel, Texas Instruments, GlobalFoundries e Microchip Technology. Non solo perché saranno meno competitive rispetto ai competitor asiatici, ma perché saranno penalizzate da un sistema doganale cinese che ora dichiara esplicitamente: “No wafer, no party”.
He Hui, esperta di semiconduttori di Omdia, ha chiarito in un webinar che il colpo è più strategico che immediato. La Cina non si limita più a rincorrere l’innovazione, ma sta costruendo l’intero ecosistema, a partire dai materiali e dai macchinari, settori oggi ancora dominati da aziende occidentali. Ma non per molto, se Pechino continua a spingere su investimenti e incentivi come ha fatto finora.
E se vi state chiedendo quanto pesa questa partita, basta dare un’occhiata ai numeri: nel 2024 la Cina ha importato chip per un valore di 386 miliardi di dollari, con una crescita del 10,4% rispetto all’anno precedente. Altro che crisi. Questa è una guerra, sì, ma una in cui si combatte con logiche da supply chain e definizioni da manuale WTO.
E come spesso accade quando si prova a forzare la realtà industriale con la propaganda politica, la realtà risponde con freddezza chirurgica. Le tariffe di Trump non stanno riportando il lavoro in patria, stanno semplicemente rendendo più costoso il business americano. E intanto, Micron una delle poche aziende USA ancora con un piede in ogni continente ha già avvertito i clienti americani: si alzano i prezzi, da mercoledì si paga il sovrapprezzo.
In sintesi: mentre Washington alza muri, Pechino riscrive le regole. E nella guerra dei chip, le definizioni valgono più dei proclami.