Benvenuti nell’era del trilione di dollari. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca come un fantasma che non vuole saperne di restare nel passato, ha promesso – con l’immancabile petto gonfio da comandante in capo – un budget per la difesa da 1.000 miliardi di dollari. Una cifra colossale, mai vista prima, che rappresenta un incremento vertiginoso rispetto agli 892 miliardi appena approvati per il 2024. E mentre a Washington tagliano a colpi d’accetta tutto ciò che non sa di guerra, Trump e il nuovo Segretario alla Difesa Pete Hegseth piazzano il pentolone bollente della deterrenza sul fornello dell’Indo-Pacifico. Il messaggio è chiaro, urlato con il solito megafono mediatico: la Cina è il nemico designato, e bisogna spendere per stare al passo.

Peccato però che, a detta degli analisti, questa escalation più che un’anticamera del conflitto sembri l’ennesimo braccio di ferro commerciale travestito da manovra militare. Altro che Pearl Harbor 2.0: siamo in pieno Wall Street vs. Pechino, stagione quattro.

La guerra dei dazi si è intanto trasformata in un reality show dai toni grotteschi. Mentre Trump sospende per 90 giorni i dazi su quasi tutti gli altri Paesi (per salvare le apparenze multilaterali?), contro la Cina si scatena l’inferno fiscale: il prelievo sulle importazioni schizza al 125%, con un’effettiva pressione tariffaria che ha raggiunto il 136% rispetto all’inizio del primo mandato. La risposta di Pechino, prevedibilmente simmetrica, porta il totale dei dazi cinesi contro i prodotti USA all’84%. Altro che disaccoppiamento ordinato: qui si assiste a una separazione coniugale con piatti rotti e carte bollate.

Nel frattempo, Trump riduce la presenza militare in Europa e Medio Oriente. Qualcuno potrebbe pensare a una ritirata strategica, ma più probabilmente è un semplice cambio di target: via dalle sabbie del Golfo, avanti tutta verso il Pacifico. È il pivot asiatico riveduto e corretto in salsa MAGA.

La vera domanda però è un’altra: siamo davvero a un passo dal conflitto militare tra le due superpotenze? La risposta è più prudente di quanto ci si aspetterebbe, e proviene proprio dagli osservatori cinesi. Fu Qianshao, analista militare a Pechino, ridimensiona il tutto: sì, la Cina sta colmando il gap tecnologico e il Pentagono cerca disperatamente di recuperare, ma anche con mille miliardi di budget gli americani non sono in grado di sostenere un confronto diretto con il PLA nel Pacifico occidentale. Non solo: secondo lui, l’efficienza americana è talmente bassa che si rischia di bruciare il capitale senza ritorni tattici significativi.

La mossa americana serve a evitare che la guerra commerciale sfoci in un vero conflitto. Insomma, il muscolo viene esibito, ma l’obiettivo è dissuasivo. Il rischio però è che, come spesso accade, i muscoli diventino autonomi e inizino a muoversi da soli.

Il problema per gli USA è che la Cina non solo ha aumentato la sua spesa militare in linea con il PIL, ma ha anche investito in modo più coerente ed efficiente in tecnologie convenzionali, riducendo lo storico vantaggio tecnologico americano. Anche sul fronte nucleare, Pechino ha accelerato – costringendo gli USA a rivedere il proprio arsenale. Ma il paradosso è che questo rafforzamento, secondo Washington, stabilizza i rapporti di forza, invece di destabilizzarli.

L’escalation USA serve anche ad aggiornare un esercito vecchio, carico di equipaggiamenti obsoleti e sistemi da Guerra Fredda. Per dirla fuori dai denti, più che un riarmo contro la Cina, sembra un tentativo di modernizzazione post-industriale.

Sul fronte Taiwan, il nocciolo duro della frizione geopolitica, le posizioni restano ambigue ma aggressive. Pechino non ha mai smesso di considerare l’isola una parte non negoziabile del proprio territorio. Washington, dal canto suo, continua a non riconoscerla ufficialmente ma le vende armi a ritmo serrato, con buona pace del principio di una sola Cina.

Un rapporto del Washington Post rivela che il vero piano segreto del Pentagono sotto Trump è prepararsi a vincere una guerra con la Cina e difendere il “near abroad” americano, cioè territori nevralgici come il Canale di Panama o, incredibilmente, la Groenlandia. Si torna al Risiko globale con le pedine spostate a casaccio su una mappa sempre più instabile.

Dall’altra parte del Pacifico, Pechino non resta a guardare. Il budget militare cinese per il 2025 è salito a 1,78 trilioni di yuan, circa 242 miliardi di dollari. Una cifra ancora lontana da quella americana, ma cresciuta in modo costante e con una ratio spesa/PIL ancora molto più contenuta. Xi Jinping mira a un esercito “di classe mondiale” entro il 2049, centenario della Repubblica Popolare. Non si tratta solo di missili e portaerei, ma di prestigio, deterrenza e simbolismo politico.

Timothy Heath della RAND offre un’altra lettura interessante: per Pechino, l’aumento di budget USA dovrebbe essere visto come speculare alla strategia di Xi. Non è un atto ostile ma un gioco di specchi tra due potenze in cerca di legittimazione militare interna ed esterna. Nessuna delle due vuole una guerra vera, e nessuna delle due sta preparando il proprio popolo a combatterla. Per ora.

La strategia USA è spostata sull’Indo-Pacifico, ma nella pratica Trump guarda ancora all’Europa e al Medio Oriente. I muscoli si flexano, ma l’attenzione resta altrove.

La sensazione è quella di assistere a una guerra di postura, più che a una reale preparazione al conflitto. E in questo senso, il budget da trilione di dollari è tanto un messaggio interno quanto uno esterno: rafforzare l’immagine di Trump come “l’uomo forte” che sa proteggere la patria e sa come trattare con Pechino. Ma nella sostanza, siamo ancora nel campo delle manovre pre-elettorali, con una guerra commerciale che indossa la divisa da generale.