Fa quasi tenerezza, se non fosse drammatico. La Segretaria all’Istruzione degli Stati Uniti, Linda McMahon, già nota più per il wrestling che per la pedagogia, ha partecipato a un panel dedicato all’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro. Fin qui nulla di nuovo. Il problema? Ha ripetutamente chiamato “AI” acronimo universalmente noto per “Artificial Intelligence” con un convintissimo “A1”. Sì, come la salsa per bistecche. Uno scivolone lessicale che, se fosse uscito dalla bocca di un comico da stand-up, avrebbe strappato una risata. Ma quando arriva dalla persona che dovrebbe dirigere il futuro educativo di una nazione, il retrogusto è quello dell’angoscia.

Certo, potremmo cavarcela con una battuta: magari pensava che l’“A1” fosse un miglioramento delle scuole di “serie B”. Oppure che fosse una nuova sigla per un programma proteico destinato ai cervelli adolescenti. Ma dietro la gaffe si nasconde qualcosa di ben più serio: l’inquietante incompetenza della classe dirigente rispetto alle tecnologie che stanno ridefinendo l’intera struttura della società.

Quando chi ha in mano le leve dell’istruzione confonde l’intelligenza artificiale con una salsa da barbecue, non stiamo solo ridendo di una papera mediatica. Stiamo assistendo, in diretta e senza filtri, all’ennesima dimostrazione che chi dovrebbe guidare la transizione digitale non ha nemmeno imparato a nominarla correttamente. E se non sai nominarla, figurati implementarla, regolamentarla o — Dio non voglia — spiegarla a dei docenti. Anzi, peggio: a dei ragazzi.

L’AI quella vera, non la versione marinate & grill è già entrata nelle classi: dalla personalizzazione dell’apprendimento ai sistemi di tutoring automatico, dagli algoritmi predittivi per identificare studenti in difficoltà alle piattaforme educative adattive. E mentre in Finlandia o a Singapore si discute di ethics by design, qui si è ancora al livello del karaoke delle sigle.

Nel frattempo, il mondo reale non aspetta. Le Big Tech, con o senza errori di dizione, stanno colonizzando le scuole pubbliche come nuovi missionari digitali. Microsoft, Google e OpenAI entrano nei programmi educativi come partner, senza dover nemmeno citofonare al Ministero. Il tutto mentre chi dovrebbe gestire la supervisione istituzionale confonde i modelli linguistici con le etichette della Heinz.

Il vero pericolo, però, non è solo l’ignoranza lessicale. È che questo tipo di superficialità linguistica riveli una superficialità sostanziale. Se non si comprende nemmeno la terminologia, come si può pretendere di orientare l’uso di queste tecnologie secondo principi etici, pedagogici, inclusivi? Come si può proteggere l’infanzia dagli algoritmi quando non si sa nemmeno pronunciarli?

E soprattutto, in un mondo dove l’AI sta ridefinendo le regole della produttività, della conoscenza, del potere, possiamo davvero affidarci a chi confonde una rivoluzione epistemologica con un condimento da fast food?

Ci rimane una sola speranza: che prima di “portare l’A1 nelle classi”, qualcuno porti un po’ di A-B-C nei ministeri.