Ne sentiremo parlare.

In un Paese che ha reso l’iperbole una forma d’arte politica, quando il Premier cinese Li Qiang ti chiama a raccolta tra un economista della logistica e un magnate del trasporto marittimo, qualcosa di simbolico sta accadendo. Peng Zhihui, classe 1993, fondatore della start-up AgiBot e ex enfant prodige di Huawei, è stato convocato tra le giovani speranze della tecnologia nazionale per un simposio a porte chiuse a Pechino. Un palcoscenico istituzionale che somiglia a un’investitura, più che a una riunione operativa.

Sotto il volto liscio del socialismo high-tech si nasconde un sottotesto chiarissimo: Pechino ha bisogno di nuovi idoli, possibilmente con un background da ingegneria applicata e un portfolio di robot bipedi pronti a spostare scatole o conquistare TikTok. E Peng, con il suo curriculum da sceneggiatura Marvel un braccio robotico alla Iron Man, un nickname virale (“Zhihuijun”), e un passato nei reparti AI di Huawei e Oppo è perfetto per la parte. Non un semplice imprenditore, ma un totem narrativo per una Cina che vuole ribadire che la partita dell’intelligenza artificiale non è a esclusivo appannaggio della Silicon Valley.

Peng non è l’unico giovane rampante ad aver ottenuto il sigillo politico. Prima di lui, Liang Wenfeng di DeepSeek e Wang Xingxing di Unitree Robotics sono entrati nel circuito delle “riunioni simboliche”, spesso preludio a facilitazioni burocratiche, canali preferenziali e soprattutto una visibilità da endorsement di Stato. Non significa ricevere soldi pubblici direttamente, ma nella Cina post-Zero Covid, la vera moneta è l’accesso. Ai fondi, ai talenti, ai dati.

AgiBot oggi è una start-up da 10 miliardi di yuan — circa 1,36 miliardi di dollari con sede a Shanghai. E non si limita alla prototipazione. Ha già messo sul mercato tre linee di prodotto che coprono l’intero spettro dell’ambizione robotica: Yuanzheng, un robot umanoide bipede da lavoro; Lingxi, una versione più compatta orientata ai developer e al mercato consumer; e Genie, una piattaforma robotica con doppio braccio su ruote, perfetta per ambienti industriali o scenari da showroom.

Al 15 dicembre scorso, AgiBot aveva già prodotto in serie 962 unità. Un numero impressionante in un settore che spesso resta intrappolato nella demo da salotto. Ora l’obiettivo dichiarato è arrivare tra i 3.000 e i 5.000 pezzi per il 2025. Per dare un’idea del peso di questa ambizione, basti pensare che Elon Musk, con il suo progetto Optimus in Tesla, ha indicato target simili per i suoi automi umanoidi. E quando un’azienda cinese fissa gli stessi obiettivi numerici di una creatura di Musk, non è un caso. È un messaggio.

Per rafforzare la scalata, AgiBot ha appena fatto un colpo da novanta sul piano del talento: ha assunto Luo Jianlan, ex scienziata di Google con un curriculum che farebbe impallidire un’intera commissione di Stanford. Luo ha collaborato con Sergey Levine, il guru dell’apprendimento per rinforzo alla base del think tank californiano Physical Intelligence, e ha lasciato la sua impronta su progetti avanzati in Google X e DeepMind. Ora guiderà il nuovo centro di ricerca AI dell’azienda, mettendo AgiBot in una posizione strategica per integrare deep learning, robotica e automazione a ciclo chiuso.

Il tutto avviene mentre Pechino manda segnali contrastanti al mondo tech: repressione regolatoria da un lato, carezze paternalistiche dall’altro. In questo schema schizofrenico, Peng Zhihui e AgiBot incarnano il prototipo del “giusto imprenditore”: giovane, visionario, disciplinato, allineato. Non troppo autonomo, non troppo esuberante, ma sufficientemente brillante da tenere accesa la fiammella dell’innovazione senza alimentare l’incendio dell’instabilità.

Chi ha orecchie per intendere capirà che qui non si parla solo di robot. Ma del nuovo patto sociale tra élite tecnologiche e potere politico in un Paese che, per restare competitivo, ha bisogno disperato di geni funzionali. E, se possibile, anche mediaticamente spendibili.