OpenAI ha deciso che non era più tempo di silenzi o PR accomodanti. Mercoledì, ha lanciato la sua controffensiva legale contro Elon Musk, accusandolo apertamente di “una campagna di molestie” sistematica, portata avanti a colpi di post, cause, richieste fasulle e un tentativo farsa di acquisizione, con l’unico scopo neanche troppo velato – di sabotare la transizione dell’ex sua creatura in una macchina da profitti. Il tutto, ovviamente, con Musk nel ruolo di spettatore interessato e potenziale conquistatore.
Il teatro dello scontro è la Corte distrettuale federale della California del Nord, ma la posta in gioco va ben oltre una questione legale: c’è in ballo il futuro della più discussa e influente azienda di AI del pianeta, impegnata in una corsa contro il tempo per chiudere un round di raccolta fondi da 40 miliardi di dollari entro fine anno. E, come sempre in queste faccende, non è questione di morale, ma di potere e controllo.
La storia parte da lontano, con Musk che co-fonda OpenAI nel 2015 insieme a Sam Altman, salvo poi abbandonare il progetto quando si è reso conto che non avrebbe avuto il volante. Da allora ha fatto di tutto per rientrare dalla finestra, fino a fondare una sua società concorrente, xAI, nel 2023. Ma quando ha capito che il razzo chiamato ChatGPT stava per decollare davvero verso l’iperspazio del business, Musk ha iniziato a bombardare il decollo con ogni mezzo possibile, dalle denunce alle offerte di acquisto “non richieste” (e platealmente respinte).
Secondo il documento depositato da OpenAI, Musk avrebbe orchestrato un’intera guerra d’opinione e strategia legale mirata a screditare l’azienda, rallentarla, metterle il bastone tra le ruote. Non solo sui giornali, ma anche attraverso X (ex Twitter), piattaforma di cui è proprietario e che ha recentemente “fuso” con xAI in un’operazione da 33 miliardi di dollari. In pratica, l’uomo più rumoroso del tech globale starebbe usando la sua influenza social come arma tattica per prendersi il gioiello AI che ha aiutato a costruire, ma che ora vuole ricondurre sotto il suo controllo totalizzante.
OpenAI, dal canto suo, non solo rigetta tutte le accuse di aver tradito la sua missione originaria – “fare il bene dell’umanità” (una frase che oggi suona come un meme distopico) – ma rincara la dose: Musk non è un salvatore etico, ma un imprenditore con sindrome da accentramento, che cerca di usare il diritto come leva di conquista.
Il vero nodo della contesa è la trasformazione di OpenAI da no-profit a capped-profit. Una manovra già completata a livello tecnico, ma che richiede ancora l’accettazione di investitori e regolatori per concretizzarsi pienamente. Una condizione essenziale per ottenere la nuova valanga di capitali necessaria a tenere testa a Google DeepMind, Anthropic, Mistral e – guarda caso proprio xAI.
Come in ogni dramma di potere ben scritto, non manca il rifiuto teatrale: Altman, imperturbabile, ha rispedito al mittente un’offerta di acquisizione da 97,4 miliardi di dollari arrivata da un consorzio guidato da Musk. Risposta secca: “No, grazie”. E qui non stiamo parlando di bruscolini, ma della valutazione di mercato di un asset che oggi è al centro della più feroce corsa globale all’intelligenza artificiale generalista.
Il processo vero e proprio inizierà nella primavera del 2026. Ma il vero gioco si gioca nei prossimi mesi, con OpenAI che deve completare la sua trasformazione finanziaria entro fine 2025. Se ci riesce, diventa la regina del ballo. Se no, Musk potrà dire di aver avuto ragione. O almeno, di aver bloccato abbastanza il nemico da far crescere xAI come clone con steroidi della sua ex.
Qui non c’è nessun eroe. Solo due narcisismi algoritmici che si scontrano in una Silicon Valley dove il bene comune è ormai una trovata di marketing e ogni post è un missile terra-mercato. Il futuro dell’AI? Una questione di chi ha più server, più follower, e più avvocati.